Cosa sta cambiando nella comprensione della depressione?
A gennaio 2025 è uscito un articolo sul New York Times che ha fatto discutere: “Do antidepressants work? This British professor says they don’t”. Il pezzo racconta il lavoro e le posizioni della psichiatra britannica Joanna Moncrieff, che da anni mette in discussione l’idea – diffusa e rassicurante – che la depressione sia causata da uno squilibrio chimico, in particolare da un deficit di serotonina.
L’articolo del Times arriva due anni dopo la pubblicazione, nel 2022, di una revisione sistematica a firma di Moncrieff e colleghi sulla rivista Molecular Psychiatry. Il titolo è eloquente: “The serotonin theory of depression: a systematic umbrella review of the evidence” – una “revisione a ombrello” che ha analizzato decine di studi su vari aspetti della serotonina per verificare se esistano prove solide che colleghino questo neurotrasmettitore alla depressione.
Cosa dice la scienza?
I risultati della review sono sorprendenti (o forse no, per chi lavora da anni con un approccio integrato e relazionale alla sofferenza psichica):
- Non ci sono evidenze convincenti che le persone depresse abbiano livelli più bassi di serotonina nel cervello.
- Gli studi sui recettori e sui trasportatori della serotonina sono deboli e spesso influenzati dal precedente uso di antidepressivi.
- Le ricerche sulla deprivazione di triptofano (precursore della serotonina) non mostrano effetti coerenti.
- Anche le analisi genetiche, condotte su centinaia di migliaia di individui, non supportano l’idea che la depressione sia legata a variazioni nei geni della serotonina.
In sintesi: la teoria che la depressione sia causata da una carenza di serotonina non regge più sul piano scientifico.
Una teoria comoda (per tutti)
Ma allora perché questa ipotesi ha dominato per decenni? Perché è semplice. Perché offre una spiegazione rapida e “tecnica” del dolore psichico. E perché ha giustificato – sul piano commerciale e clinico – l’uso diffuso degli SSRI, gli antidepressivi più prescritti al mondo. Dire a una persona in difficoltà che la sua sofferenza dipende da una “mancanza di serotonina” ha rassicurato milioni di pazienti… e semplificato il lavoro di medici e psicologi.
Tuttavia, questa semplificazione ha avuto un costo: ha oscurato la complessità della depressione, riducendola a un problema biochimico, trascurando le cause emotive, relazionali, traumatiche, esistenziali.
Gli antidepressivi funzionano?
Il punto sollevato da Moncrieff – e discusso nell’articolo del Times – non è che gli antidepressivi “non funzionano”. È che non funzionano come si è creduto: non “correggono” uno squilibrio chimico. Possono avere effetti reali, ma questi effetti sono ancora poco compresi, e spesso non superiori al placebo nei casi di depressione lieve o moderata.
Questo non significa che i farmaci vadano demonizzati. Ma che vanno restituiti al loro contesto: strumenti parziali, da usare con consapevolezza, non panacee.
Verso una nuova comprensione della depressione
L’idea di fondo che emerge da questa revisione è che la depressione non è (solo) un disturbo del cervello. È un’esperienza complessa, che coinvolge il corpo, la storia personale, le relazioni, il contesto sociale. È una risposta spesso comprensibile a esperienze di perdita, solitudine, disconnessione, trauma.
Spostare lo sguardo dal cervello alla persona significa ripensare anche la cura: dare spazio a percorsi terapeutici che includano il corpo, l’ascolto profondo, il contatto umano. Psicoterapia, relazione, presenza. Un lavoro paziente, a volte scomodo, ma profondamente trasformativo.
Forse non c’è una “pillola magica” per guarire dalla depressione. Ma c’è qualcosa di più potente: la possibilità di essere visti, ascoltati, accompagnati nel proprio dolore. La scienza non ci dice che non possiamo guarire. Ci dice solo che, per farlo, dobbiamo cambiare strada.