LAVORARE CON IL TRAUMA SENZA DRAMMA: ABUSATA E ANCORA VIVA
Will Davis
Più di 30 anni or sono iniziai ad assistere a un fenomeno insolito. Mentre lavoravo con l’instroke – il movimento di raccoglimento, auto-orientato, della pulsazione vitale – i pazienti andavano spontaneamente in un contatto profondo, calmo e tranquillo con se stessi, senza esprimere emozioni o movimenti. Mentre eseguivo una tecnica di tocco delicato si giravano spesso su un lato e si rannicchiavano nel materasso. Io avevo l’impressione che non stesse accadendo niente, mentre i pazienti riportavano sovente, in seguito, il verificarsi di eventi profondi. In parole povere erano capaci di ri-organizzare le relazioni oggettuali primarie senza nessuna nuova informazione aggiuntiva, nessuna elaborazione della loro storia e nessun ulteriore intervento da parte mia. Lo stavano facendo da soli, e quando successivamente riferivano i cambiamenti, alcuni commentavano quanto fosse stato semplice. Si erano creati una versione diversa dello stesso evento storico, a volte traumatico, risolvendolo e proseguendo nella loro vita. Questo mi confondeva particolarmente, poiché non rientrava in nessuno dei modelli terapeutici che avevo appreso. È ovvio che la riorganizzazione di un oggetto primario non va contro nessuno dei principi della psicoterapia. Ciò che era nuovo era il modo in cui si otteneva, ovvero lavorando senza il dramma di ri-sperimentare il trauma, e il fatto che i pazienti ottenessero questo cambiamento spontaneamente, all’interno di se stessi.
Un semplice esempio di non-trauma è quello di una paziente che mi disse che non era stata a trovare il fratello per più di 11 anni sebbene le piacessero sua cognata e i loro bambini. Per lei non ne valeva la pena perché lui era una persona molto difficile. Poi mi disse, “ora ci vado. Non sono più parte di quella rappresentazione teatrale.” Non avevamo mai discusso questo tema in terapia e comunque lei lo risolse da sola. Il problema è sembrato evaporare e non si è più ripresentato in seguito o in un’altra forma. Questo sembrava andare contro gli assunti base della psicoterapia: analizzare e comprendere il problema, collegare gli stati emotivi al terapeuta, rivivere eventi o emozioni pericolose, usare la relazione terapeutica come sostegno, esprimere emozioni, memorie e movimenti repressi.
Fu particolarmente sorprendente quando questo stesso fenomeno si verificò su pazienti con una prolungata storia di vita traumatica. In alcuni casi il paziente non aveva mai fatto cenno al trauma e quindi non era mai stato trattato. Un esempio avvenne all’inizio dell’ultima di una serie di 9 sessioni con un paziente, in un workshop di una settimana in cui non c’erano state discussioni rivelative, né movimenti o emozioni; stava disteso sul materasso supino e io stavo delicatamente toccando la sua schiena. Cominciò a piangere tranquillamente e profondamente. Spiegò più tardi che si era reso conto che la sua matrigna lo aveva amato. “Ho sempre pensato che le cose che mi faceva fossero perché non mi amava. Ora capisco che era il suo modo di mostrare che mi amava!” Io non sapevo che sua madre era morta quando era bambino. In aggiunta, in quella sessione, non ci fu nessuno dei segnali vegetativi tipici dell’emergere del trauma: battito cardiaco accelerato, sensazioni di caldo o freddo, panico o paura, sudorazione, brividi, agitazione o scissione. Nonostante questo, egli aveva elaborato e chiarito questo trauma da solo.
In altri casi le persone ripercorrevano le loro storie traumatiche tra una seduta e l’altra, durante i training di formazione, mentre facevo dimostrazioni delle tecniche o quando altri stavano apprendendo e praticando le tecniche tra di loro. Divenne necessario comprendere questo fenomeno.
IL FENOMENO
Il caso che segue è un esempio. Dopo un workshop introduttivo ho ricevuto la seguente email.
“Qualcosa è cambiata in me durante questo training. Non
ero in grado di definirlo allora, ma negli ultimi giorni mi osservo
semplicemente, e una nuova sensazione di sollievo e
tranquillità è emersa dal profondo di me. Molti ricordi sono
saltati fuori, ricordi che avevo chiuso a chiave, giù nel
profondo, e cercato di ignorare. Prima di venire da te ho letto
attentamente i materiali che ci hai suggerito. Ho compreso
intellettualmente il concetto di endo-sé e instroke. Ma era solo
un altro concetto, altre parole intelligenti. Nel training ne ho
potuto fare esperienza. Ho sentito questo luogo dentro di me
in cui tutto va bene, è calmo e pacifico. Non l’ho capito subito,
ma poi quei ricordi che sono riemersi mi hanno fatto ricordare
che conoscevo questo posto. Durante l’esercizio d’instroke ho
visto mio padre. Morì tra le mie braccia quando avevo tredici
anni. Quello fu il momento in cui ho smarrito la via per tornare
a me stessa, e l’ho fatto di proposito. Negli ultimi giorni mi
sono ricordata di come mio padre era solito portarmi al fiume,
o in montagna, quando ero bambina, e sedevamo
semplicemente in silenzio. Egli era solito dirmi che questo è un
modo per trovare la pace interiore, di trovare la forza. Mi ha
insegnato come ascoltare la mia voce interiore, come sentire il
mio corpo, come trovare la forza in me. E quando è morto ero
così arrabbiata con lui che ho bloccato tutto, ho buttato via le
chiavi per l’interno e ho iniziato a vivere solo tramite l’ “uscire
fuori”. Ho lavorato sulla mia rabbia e sul dispiacere, e su molte
altre emozioni nella mia terapia personale. Faccio yoga e
numerosi tipi di meditazione, e tutto quello che stavo
cercando, tutto quello che faticavo a trovare, è esattamente
quella sensazione di calma, e che “tutto andrà bene”, che
conoscevo così bene nella mia infanzia. L’intuizione appena
avuta è così potente. Mi sento sul giusto sentiero per la prima
volta. Mi voglio riconnettere a me stessa. E questo cambia così tanto…”
In questo passaggio possiamo leggere i temi principali del fenomeno da me descritto. Non c’era focus specifico sull’evento traumatico. (Non era nemmeno un laboratorio di terapia). Non c’è stato un rilascio specifico o un insight, avvenuti durante le esercitazioni pratiche della tecnica che gli altri formandi applicavano su questa partecipante. Comprendeva già i concetti di instroke e di endo-sé non danneggiato, ma fino a quel momento ne aveva soltanto un’esperienza intellettuale e impersonale.
C’erano però i segni classici dello stato di endo-sé (Davis, 2014): tutto andava bene, era calma e pacifica, e conosceva già questo stato. Stava ritornando ad esso, ritornando a se stessa. Come fa notare Merleau-Ponty: “Alle radici di tutte le nostre esperienze troviamo, infine, un essere che riconosce immediatamente se stesso…non attraverso l’osservazione e come un fatto dato, né per inferenza da qualche idea di se stesso, ma attraverso il contatto diretto con quell’esperienza.” (in Pagis, 2009, p. 267).
Inoltre, non descrive nessuno stato di panico, paura, o risposta vegetativa come risultato della sua riorganizzazione dell’evento traumatico. Lei era realistica, nel momento presente, e non idealizzava. Per esempio, si assunse la responsabilità per le proprie azioni: la rabbia e il “gettar via la chiave” allontanandosi da se stessa. Riconobbe che suo padre era stato buono e amorevole, insegnandole molte cose importanti. C’è da aggiungere che processò tutto questo per conto proprio, dopo il workshop. È di particolare interesse che lei aveva già lavorato su rabbia, tristezza e molte altre emozioni nel corso della sua terapia personale.
Alcuni colleghi hanno suggerito che questa trasformazione è stata il risultato della sua precedente terapia e di altre attività. Se questo fosse vero, la maggior parte dei pazienti che sono in terapia da lungo tempo dovrebbero andare incontro a questo genere di esperienza, ma per quanto ne so, ciò non avviene. Non avevo assistito a un simile fenomeno per i primi 15 anni della mia pratica professionale, facendo Gruppi di Incontro, Gestalt Therapy, e poi la terapia neo-reichiana con Radix. Non si è manifestato finché non divenni esperto nell’aiutare i pazienti a mobilizzare il loro processo di instroke e approfondire il contatto con se stessi. Nell’esempio precedente, la trasformazione nei riguardi della matrigna, si trattava, come per altri pazienti, di un “principiante” della terapia. Era chiaro che qualcos’altro stava avvenendo, qualcosa che non avevo appreso durante la mia formazione come terapeuta. Da allora ho formato altri terapeuti che riferiscono un fenomeno simile, alcuni dei quali avevano difficoltà ad accettare che tutto ciò stesse realmente avvenendo. In termini psicologici, ciò cui stiamo assistendo è una completa ristrutturazione di una relazione oggettuale, o esperienza primaria negativa, che dura da una vita, e che avviene sul piano intrapsichico, a volte in solitudine, senza che al paziente sia disponibile alcun nuovo apporto. Com’è possibile tutto questo?
Per rispondere a questa domanda iniziamo con il principio figura/sfondo della Gestalt scoperto più di 100 anni fa. Il neurologo Kandel (2013) ha descritto la natura autoreferenziale della percezione e di come creiamo la nostra realtà. Attraverso la sua discussione della percezione visiva mette l’accento sul fatto che “l’occhio non è una fotocamera” (Kandel, 2013, p. 234), “ogni immagine è soggettiva” (Kandel, 2013, p. 200) e “non c’è occhio innocente.” (Kandel, 2013, p. 200). È vero per il tatto, l’udito, il gusto e l’odorato. Per le emozioni, l’empatia e i cinque sensi, il cervello si impegna nella cosiddetta verifica delle ipotesi: indovinando ciò che è visto sulla base delle esperienze precedenti. (Kandel, 2013). La nostra percezione del mondo fisico è “…una illusione creata dal nostro cervello” (Kandel, 2013, p. 200). Egli fa notare che si può vedere lo stesso dipinto per diversi anni e vedere e/o sentire cose diverse ogni volta. Si può dire la stessa cosa anche per le diverse reazioni allo stesso oggetto/altro.
Questa capacità di riformulare è alla base della possibilità di ristrutturare una relazione primaria anni dopo, senza nuove informazioni, e di come vengono raggiunti i cambiamenti che abbiamo individuato in una psicoterapia del profondo. L’oggetto rimane lo stesso – la storia resta la stessa. È l’esperienza del paziente che cambia. Descrizioni simili si trovano nella prospettiva fenomenologico. “L’allievo resta immutato, è la sua esperienza della situazione che cambia.” (Syngg,1941, p. 406).
L’interpretazione è inerente a tutti gli input sensoriali. Un cambiamento dell’esperienza interocettiva cambia l’interpretazione del passato, proprio come nel vedere ripetutamente lo stesso dipinto negli anni. Solo all’apparenza il dipinto cambia.
Per illustrare questo punto Kandell (2013) ha usato il disegno della Gestalt che appare come un coniglio o un’anatra a seconda di come noi lo guardiamo. La prima osservazione che fa è che i dati visivi sulla pagina non cambiano. Ciò che cambia è l’interpretazione dei dati. Nella terapia è l’esperienza del paziente degli eventi storici che cambia. I dati storici sono riorganizzati portando a un cambiamento dell’esperienza dello stesso identico evento.
La sua seconda osservazione è che noi “decidiamo” cosa vedere e queste decisioni sono basate su una verifica delle ipotesi, fondata su una combinazione dei nostri pattern di riconoscimento neurale e le nostre esperienze precedenti. È importante notare che nella percezione conscia non può esserci ambiguità. Deve per forza essere un coniglio oppure un’anatra. Non possiamo vedere entrambe allo stesso momento. C’è di più, questo principio sta alla base di tutte le nostre percezioni consce del mondo. A livello conscio, cognitivo, dobbiamo attribuire un significato a tutto.
Ma le ricerche (Kandel, 2013; Raichle, 2010; Schore, 1999) hanno rilevato che sul piano inconscio siamo in grado di sostenere innumerevoli interpretazioni coerenti e spesso contraddittorie. L’inconscio può tollerare l’ambiguità dandole accesso a più informazioni, più possibilità, offrendo un’interpretazione alternativa per la mente conscia quando questa è pronta a “vederla”.
Il pensiero conscio lavora in modo top-down ed è guidato da aspettative e modelli interni; è gerarchico. Il pensiero inconscio, invece, lavora in modo bottom-up o non gerarchicamente e può quindi permettere maggiore flessibilità, nel trovare nuove combinazioni e permutazioni di idee. Mentre i processi di pensiero consci integrano informazioni in modo rapido, i processi di pensiero inconsci integrano le informazioni più lentamente per formare una sensazione più chiara, forse più libera da conflitti. (Kandel, 2013, p. 469)
Questo aiuta a spiegare in che modo i dati originari – la storia del paziente – possono essere riorganizzati portando a una ri-strutturazione di un oggetto o evento primario, senza l’aggiunta di nuove informazioni.
Lo stesso fenomeno è stato registrato nella pupillometria:
“Durante i cambiamenti nella percezione, niente cambia nel mondo degli input ambientali, così ogni cambiamento nella percezione deve essere attribuito a un cambiamento interno dello stato del cervello che conduce a interpretare lo stesso stato del mondo come un evento diverso”. (Laeng, Sirois & Gredebäck, 2012, p. 22)
Ritornando all’immagine del coniglio/anatra, c’è solamente una singola immagine bidimensionale sulla pagina. A tutti gli effetti lì non c’è né un coniglio né un’anatra, ma a livello conscio abbiamo bisogno di classificare e organizzare gli input in modo da attribuirgli un significato.
Per di più Laeng, Sirois and Gredebäck (2012) hanno indicato che le risposte pupillari a immagini, pensieri e emozioni, sono le stesse. L’immaginazione e la percezione sono basate sugli stessi processi neurali: si attiva lo stesso stato cerebrale. Il tuo corpo reagisce come se tu fossi lì. Quello che accade nell’immaginazione sta realmente accadendo, e non è una memoria. I cambiamenti osservati durante l’immaginazione di un oggetto “sono una risultante di un processo attivo di immaginazione e non un effetto secondario di tracce episodiche di immagini viste in precedenza. In altre parole, quello che avviene nella fase immaginativa sta realmente avvenendo e non è qualcosa di residuo.” (Laeng & Suluvedt, 2013, p. 4). Ritorneremo su questo tema nella sezione “Un Modello Funzionale”.
“La nostra percezione del mondo è una fantasia che coincide con la realtà.” (Kandel, 2013, p.261). Il fatto che stiamo creando tutti questi oggetti spiega perché possiamo fraintendere costantemente e vedere lo stesso oggetto “erroneamente” più e più volte, per esempio nel transfert o con una matrigna “cattiva”.
Quest’idea è sostenuta dalla ricerca neurologica di Raichle (2010) e Buckner, Andrews-Hanna e Schacter (2008) sul default mode network (connettività funzionale intrinseca, n.d.t.) all’interno del cervello. Raichle ha mostrato che c’è un sistema sottocorticale che coinvolge diverse aree cerebrali e che organizza inconsciamente tutte le informazioni in ingresso, senza consapevolezza cosciente, e poi informa il livello cognitivo su ciò che ha “deciso”.
Il default mode network è un sistema cerebrale specifico e anatomicamente definito. Esso è attivo quando gli individui non sono focalizzati sull’ambiente esterno. È attivo quando gli individui sono impegnati in compiti che richiedono concentrazione interna, inclusa la memoria autobiografica, immaginare il futuro, e contemplare la prospettiva dell’altro. ([Italics added], Buckner, Andrews-Hanna, & Schacter, 2008, p. 1)
Come abbiamo visto, dal punto di vista della percezione, è il sé che crea l’oggetto. Ho sostenuto altrove che non c’è oggetto oggettivo. (Davis, 2015 p. 14-18). Per esempio, il Dizionario di Psichiatria di Campbell (2004) descrive l’introiezione come “l’incorporazione nel sistema dell’io dell’immagine di un oggetto per come l’io concepisce l’oggetto.” ([Italics added] p. 348). L’idealizzazione è un esempio estremo di un oggetto auto-creato. Nell’idealizzazione la rappresentazione oggettuale interna potrebbe non avere nessuna delle caratteristiche dell’oggetto esterno “reale”. Questo è il risultato della necessità, cui si è menzionato prima, della mente conscia di organizzare e dare significato a ciò di cui sta facendo esperienza. È anche la base della narrazione che il paziente crea degli eventi storici traumatici.
INVESTIMENTO
Nel creare i nostri oggetti, il sé attribuisce un significato all’oggetto, sotto forma di una specifica qualità, una carica di energia: bisogno o desiderio. Questo è chiamato investimento. La maggior parte dei teorici sostiene che non è l’oggetto in quanto oggetto ad essere importante ma l’investimento fatto su di esso dal sé soggettivo. Mitchell (2000) osserva che nel linguaggio della infant research, la madre e il bambino si co-creano l’un l’altro. Per esempio, assumendo la posizione opposta a Winnicott, Loewald ha suggerito che gli oggetti: “…non esistono indipendentemente dal soggetto. Gli oggetti sono creati con l’essere investiti di significato”. (Mitchell, 2000, p. 38). Kohut (2001) ha assunto un punto di vista simile: “il narcisismo è definito non attraverso l’obiettivo dell’investimento, ma dalla qualità dell’investimento.” (Kohut, 2001, p.26). La ricerca in psicologia sociale ha mostrato che “è la qualità che determina il significato funzionale, piuttosto che il particolare evento o oggetto.” (Ryan, 1991, p.220). Allo stesso modo, in un modello quantico dei processi trasformativi: “L’elemento essenziale non è la quantità di energia implicata ma la sua qualità; se è in grado o meno di innescare un processo informativo di coerenza di fase.” (Casavecchia, 2016, p. 10). Come abbiamo visto da questa visione percettiva, fenomenologica, di tutte le informazioni in entrata, è il soggetto che sceglie su cosa concentrarsi e a cosa dare significato, in funzione della propria esperienza della relazione. Non si tratta tanto di cosa è stato fatto al paziente dagli altri, quanto dell’esperienza del paziente degli eventi/altri.
Green (1999) ha criticato i teorici delle relazioni oggettuali per essere troppo concentrati sull’oggetto per poter vedere ciò che ha chiamato la funzione oggettivante della pulsione vitale. Enfatizzano troppo l’oggetto e non apprezzano gli sforzi endo-psichici, gli investimenti da parte del sé nel creare oggetti, e poi relazioni, per soddisfare se stesso. Per Green, (1999) l’oggetto non crea la pulsione, esso svela soltanto la pulsione verso l’oggetto. Allo stesso modo, Damasio (1999) ha descritto l’oggetto come uno stimolo emozionalmente competente, capace di fornire una risposta alla gratificazione ma non di crearla. L’oggetto è una precondizione necessaria per l’attivazione della pulsione, ma la pulsione si trova già lì (Green, 1999, p.85).
Il ruolo della pulsione è:
…di dar vita a una relazione con l’oggetto, ma essa è capace di trasformare strutture in oggetti anche quando l’oggetto non è più direttamente coinvolto. Per dirlo in altro modo, la funzione oggettivante non è limitata a trasformazioni dell’oggetto ma può promuovere al rango di oggetto ciò che non ha alcuna delle qualità, caratteristiche, e attribuiti, dell’oggetto, a condizione che una sola caratteristica sia mantenuta nel lavoro psichico ottenuto, vale a dire, un investimento significativo. (Green, 1999, p.85)
Si spinge oltre suggerendo che il sé creerà gli oggetti anche in loro assenza! Creiamo ciò che non c’è dai nostri desideri, bisogni e credenze, sulla base della nostra esperienza degli eventi, non della “realtà” esterna degli stessi.
Loewald ha portato questa discussione al suo punto estremo:
Io sono i miei oggetti e i miei oggetti e me siamo sempre inseparabili. Non possono mai essere espulsi. Questo ci suggerisce che ciò che avviene in psicoanalisi non è un abbandono, o un esorcismo degli oggetti negativi, ma una loro trasformazione. (in Mitchell, 2000, p. 44)
Attraverso i risultati empirici che abbiamo presentato, e le loro implicazioni, il processo di creazione, e di conseguenza, ricreazione di oggetti (primari) diviene più chiaro, fornendo le basi dei meccanismi di cambiamento in psicoterapia. Gli oggetti non cambiano. Noi li trasformiamo. Più precisamente, quando la terapia procede bene, trasformiamo la nostra esperienza di essi. Questo è esattamente quello che avviene in un processo di sviluppo salutare. Mentre il bambino attraversa una progressione di fasi evolutive riorganizza continuamente la rappresentazione dell’oggetto madre, fino alla maturità. Non che la madre stia cambiando così tanto, piuttosto il bambino sta facendo esperienza dei vari aspetti della madre mentre trasforma e sviluppa se stesso ulteriormente.
MA CHI STA TRASFORMANDO COSA?
Quella che segue è una rappresentazione tipica di ciò su cui si basa una psicoterapia efficace, a prescindere dalla scuola o dall’orientamento utilizzati. “Affrontando queste paure del passato con occhi aperti nel presente, una persona può trovare la forza di superare la maggior parte delle sue disfunzioni psichiche e somatiche nella vita quotidiana.” (Adler, Gunnard & Alfredson, 2016, p. 8).
Ma da dove provengono l’energia per affrontare, e la forza per superare, se l’organismo è stato così gravemente danneggiato? E nel tema specifico di questo scritto, com’è possibile per una persona gravemente danneggiata non solo trovare la forza per affrontare e superare un trauma, ma per ristrutturare se stessa, spesso da sola, in modo chiaro e calmo? La risposta è da quella parte della psiche che non è stata danneggiata dal trauma: l’endo-sé. (Davis, 2014).
L’endo-sé descrive un senso del sé primario, auto-organizzante, incarnato, coerente, la cui qualità unica è che esiste prima di entrare in relazione: un sé autonomo, radicato nella relazione (Davis, 2014). Ci sono indicazioni di un concetto di endo-sé da una varietà di discipline. Accanto al riferimento già fatto a Merleau-Ponty abbiamo gli “stati dell’essere” di Maslow (1968), il “Core” di Reich (1967), il “nucleo interno della sé-ità” di Guntrip (in Buckley, 1986, p. 467), il “nucleo incomunicato” di Winnicott (in Buckley, 1986), e Loewald che descrive (in Mitchell, 2001) l’esperienza primaria come “…un’esperienza di un nucleo di coscienza affettiva percettiva che risuona nella qualità d’essere l’esperienza di se stessa.” (Casavecchia, 2016 p. 16), e “un nucleo nascente del sé, non un costrutto sociale ma una dotazione naturale dell’organismo.” (Ryan 1991 p. 214-215). Suggeriscono tutti un più profondo senso di coscienza/essere/sé. Jantsch (1979) arriva direttamente al punto: “…con l’esistenza arriva la coscienza” (Jantsch, 1979, p. 10), mentre Maturana e Varela (1972) definiscono la coscienza come un fenomeno biologico; “Se vivi, hai una coscienza” (p. 5).
Un altro sostegno arriva dalla conferenza di Cambridge sulla Coscienza (2012) quando si è messa in evidenza la presenza di una soggettività nel feto prima dello sviluppo dell’attività corticale: prima della cognizione, del linguaggio e della relazione. Dello stesso tono, Solms e Panksepp (2012) che hanno identificato un nucleo di coscienza affettivo, e incarnato, nel tronco encefalico, sostenendo che le funzioni corticali superiori – cognizione, linguaggio, rappresentazione e creazione dell’oggetto – sono create e ricevono informazioni da questo nucleo di coscienza primario, emozionale e incarnato. “I meccanismi cerebrali del corpo interno funzionano ampiamente in modo automatico, ma attivano anche il corpo esterno al servizio dei suoi bisogni vitali nel mondo esterno”, “…nel senso che la coscienza esterocettiva e l’apprendimento, riflettono e servono i bisogni interocettivi.” (Solms & Panksepp, 2012, p. 155; 165). Un nucleo di coscienza esiste senza consapevolezza conscia. Non è possibile il contrario. Perls lo ha espresso in modo più semplice,”la natura non lavora per decisioni ma per preferenze.” (Perls, 1972, p. 30).
Le esperienze non solo sono vissute al di sotto della cognizione, ma senza di essa. Per esempio, è possibile “traumatizzare” degli insetti. Gli scienziati hanno selezionato un tipo di insetto che manifesta cure materne per le proprie uova e per i piccoli. Hanno rimosso delle uova da alcune delle madri insetto e un gruppo di uova è stato curato in condizioni di laboratorio. I risultati hanno mostrato che le femmine insetto non cresciute dalle loro madri non erano così accudenti e protettive verso i loro piccoli come le altre. “I ricercatori trovarono che le crisalidi femmina accudite maturavano in madri devote che assiduamente pulivano le loro uova e nutrivano e difendevano i piccoli. Al contrario, le femmine cresciute senza madri non eccellevano in quanto a cure. Nutrivano la loro prole meno di frequente e non erano così efficaci nel proteggerla dai predatori.” Si sono avuti risultati simili con un altro gruppo di uova inserite all’interno della raccolta di uova di una madre adottiva. (Scientific American, 2016, p. 13)
Un approccio interessante alla comprensione dello stato di endo-Sé/coscienza nucleare, attraverso la teoria del campo quantico (QFT), è stato sviluppato da Tosi, Del Giudice (2013) e Casavecchia (2016) con il loro concetto di Minimo Stimolo, inteso come fasi di “relazioni in risonanza” all’interno del campo quantistico. La psiche ospita le fasi risonanti all’interno del campo, assicurando così un comportamento unitario all’organismo. Utilizzando il linguaggio di questo scritto, la loro descrizione rappresenta nei termini della teoria del campo quantistico, la forza aggregante dell’instroke – “concentrazione di energia interna” – e lo stato di endo-Sé – “riorganizzazione dell’energia interna” -.
Queste relazioni in risonanza…non richiedono un flusso di energia, ma piuttosto una concentrazione di energia interna, già presente nel soggetto, che comporta una diminuzione della sua entropia. Si scopre che il movimento dell’organismo non è solo un movimento che richiede un costante rifornimento di energia dall’esterno; è piuttosto un movimento dall’interno, basato sulla riorganizzazione dell’energia interna e innescato da stimoli informativi. (Casavecchia, 2016, p. 4)
Il loro concetto di minimo stimolo agisce anch’esso al di sotto delle difese, concentrandosi sulle risorse emergenti e non sui deficit strutturali delle difese dello stato traumatico.
Risuonare con le difese, concentrare l’azione sulla struttura dell’armatura corporea, rinforzare le forme funzionali della stratificazione somato-psichica degli adattamenti al trauma della perdita e al blocco del flusso bioenergetico, consolida l’esperienza che produce il senso intrapsichico della frattura della continuità dell’esistenza – l’” andare verso l’essere” di Winnicott – nel blocco della pulsazione che ha frammentato il sé e organizzato la difesa. (Casavecchia, 2016, p. 14)
Di particolare interesse per gli psicoterapeuti orientati al corpo è il nucleo di coscienza di Solms e Panksepp. Il vero corpo soggettivo interno è rappresentato non a livello della corteccia, come si supponeva, ma nel nucleo di coscienza del tronco encefalico: non come un oggetto, ma come il soggetto della percezione. A questo livello di funzionamento, “…la percezione avviene a un soggetto unitario e incarnato” (Solms & Panksepp, 2012, p. 156), mi riferisco allo stato di endo-sé. Il tronco encefalico interocettivo genera stati interni e non oggetti esterni della percezione. Fa sorgere uno stato d’essere di sottofondo: l’endo-sé, in cui, come Carl Rogers (in Ryan, 2003, p. 75) ha osservato, “tutti i fatti sono amichevoli.”
C’è una “vasta varietà di sé” con cui lavorare in terapia a livello cognitivo e conscio – falso sé, sé sociale, vero sé, sé frammentato, ecc. Ma a livello funzionale c’è solamente un sé, l’endo-sé non danneggiato. Questa è la base delle mie argomentazioni riguardo a chi sta attuando la trasformazione delle rappresentazioni dell’oggetto storico. È un endo-sé inerente che non è stato danneggiato dal trauma e di conseguenza è ancora capace di trasformare un oggetto a partire dalla stessa storia, una volta che l’esperienza dell’oggetto è mutata. Funzionalmente, questo è un fenomeno naturale e universale. Come già detto, il bambino sano usa il suo endo-sé per liberarsi di una rappresentazione dell’oggetto madre e crearne un’altra nel corso dello sviluppo. Così, anche il paziente traumatizzato si può richiamare a questo endo-sé funzionante e ancora sano, per trasformare e ri-organizzare oggetti primari e l’esperienza di eventi del passato.
RISCRIVERE LA STORIA
Se postuliamo l’esistenza di un nucleo psico-emozionale, incarnato e non danneggiato, chiamato endo sé, abbiamo risposto alla domanda su chi sta conducendo il lavoro di trasformazione. Resta comunque la domanda: come si modifica l’esperienza a partire dagli stessi dati? Come fanno i pazienti ad avere ora accesso a informazioni che non erano disponibili in precedenza? La risposta a queste domande si trova nella dinamica di ciò che Guntrip originalmente ha chiamato “la natura duale del transfert” (in Buckley, 1986, p. 467), proprio come Reich aveva già in precedenza differenziato tra un falso transfert positivo e un transfert genuino usandolo come base per il suo lavoro carattero-analitico. (Reich, 1976).
Nella sua formulazione originaria Freud ha osservato che il transfert non è limitato ai nevrotici ma è essenziale sia per il funzionamento salutare che per la guarigione “…la tendenza al transfert nei nevrotici è solo una intensificazione eccezionale di una caratteristica universale” (Davis, 1989, p. 4). L’analisi di Guntrip di questa “caratteristica universale” è perspicace. Per Guntrip un buon oggetto è la base per la salute mentale. In sua assenza, il paziente trova un buon oggetto nell’analista, sia nella relazione di transfert sia nella vita reale. “In analisi e nella vita reale, tutte le relazioni hanno una sottile natura duale.” (in Buckley, 1986, p. 447, [Italics added]).
UNA DUALITA’ : BISOGNO E DESIDERIO
È questa natura duale delle relazioni che offre la possibilità di trasformare oggetti ed eventi storici. Come Guntrip ha evidenziato, ci sono due movimenti che fluiscono simultaneamente. Io ho formulato la dinamica di questa dualità in termini di bisogno e desiderio: un doppio flusso sia di bisogno che di desiderio all’interno di tutte le relazioni (Davis, 2105). Il desiderio è l’impulso naturale verso il contatto. Usando il modello di Freud, il desiderio è la “caratteristica universale” in tutte le relazioni. Il bisogno è il desiderio frustrato attraverso l’aggiunta di un altro strato o elemento a quella “caratteristica universale”, con la creazione dell’intensificazione nevrotica o “rottura della continuità” di Winnicott, e la successiva distorsione del flusso naturale verso la relazione e la risultante creazione di stati distorti di bisogno.
È tipico degli psicoterapeuti riferirsi ai bisogni del paziente. Anche lo stesso Maslow (1968) scrisse di una “gerarchia dei bisogni”: dalla sicurezza, ai bisogni sociali, individuali, altruistici e di trascendenza, dove i bisogni “inferiori” dovevano essere soddisfatti prima di affrontare quelli successivi. Porre una differenza tra desiderio e bisogno modifica il panorama teorico. Il bisogno nasce quando il desiderio non viene soddisfatto. Il bisogno è uno stato di difficoltà, un senso di deprivazione con uno scopo implicito – di solito distante. In termini psicoterapeutici questo scopo distante è l’altro. Il desiderio suggerisce la reciprocità, un dialogo di dare e avere ponendo una “richiesta” per far rispondere l’altro cui il desiderio è espresso. Ha una qualità impermeabile, una richiesta a cui si cerca risposta (Crabb, 1917). Il desiderio è una richiesta, il bisogno è una pretesa.
Il bisogno è quindi un desiderio non soddisfatto e distorto. Il desiderio di essere in contatto è uno stato diverso dal bisogno di essere in contatto; hanno scopi ed esiti diversi (Davis, 2014, p. 14). Il bisogno nasce dal desiderio, ma proprio come l’Io emerge dall’Es, l’Io ha intenzioni ed esiti diversi da quelli di provenienza. C’è una frattura tra l’Es e l’Io. Se il desiderio non è soddisfatto “inacidisce” e diventa bisogno – uno stato di mancanza. La qualità “insistente”, “appiccicosa”, stridula, dello stato di bisogno, è un sintomo del desiderio non soddisfatto. Uno stato di bisogno è sintomo di una mancanza, di ciò che non c’è. In termini reichiani i bisogni sono emozioni che provengono dall’armatura che hanno perso il loro contatto pulsatorio con il nucleo. C’è nuovamente un effetto stratificato: emozioni difensive riguardo emozioni inaccettabili riguardo emozioni primarie che non hanno trovato soddisfazione. È uno scavo archeologico.
Il bisogno è orientato all’altro/oggetto nonostante il fatto che la sua origine provenga dall’interno, dalla stessa sorgente del desiderio. Ma avendo perso il contatto diretto con la fonte, a causa della frattura, deve essere soddisfatto dall’esterno. È l’altro che soddisfa il bisogno. Al contrario il desiderio è endogeno, sia nella sua origine e funzionamento, sia nel suo soddisfacimento. Poiché il desiderio è ancora in contatto diretto con la sua sorgente, il sé soddisfa i suoi stessi desideri dal momento che è esso che determina ciò che va desiderato e cos’è la soddisfazione.
Un’altra differenza tra bisogno e desiderio è che in uno stato di desiderio, al contrario che nel bisogno, non c’è tensione da scaricare, come nella teoria delle pulsioni. La “tensione” che esiste nel desiderio è una eccitazione energetica, una concentrazione di energia interna, che agisce come forza spontanea, naturale, che muove in direzione delle relazioni oggettuali ed è ampiamente all’interno dei livelli di tolleranza dell’organismo: la “caratteristica universale” di Freud. È piacevole (Libido significa “fa piacere”).
Inaspettatamente è Piaget a parlare direttamente di questi temi gemelli del fuoriuscire verso l’altro e del piacere che si trova in questo movimento. Piaget, nel descrivere lo sviluppo, dice che “la vera natura della vita è di superare costantemente se stessa” (in Ryan, 1991, p. 208), di estendere sempre più se stessa verso l’esterno. Questo tendere verso l’esterno, ciò che Piaget ha chiamato motivazione intrinseca, è unicamente per se stessa. C’è un piacere nella padronanza, nell’efficacia, nel fare esperienze solamente per il proprio interesse. Secondo Piaget questo è un “fatto alla base della vita psichica” (in Ryan, 1991, p. 209). Cinquanta anni dopo, la ricerca neurologica di Ramachandran ha verificato che i circuiti nel nostro cervello garantiscono che l’atto stesso di ricercare una soluzione è fonte di piacere (in Kandel, 2013).
IMMUTABILITA’
Va inoltre osservato che il soddisfare i bisogni produce solo la possibilità che i desideri siano appagati, il che solleva il tema, ancor più importante, dell’immutabilità del desiderio della vita di “superare costantemente se stessa” (in Ryan, 1991, p. 208), di andare oltre se stessa nel contatto e nella relazione. In questo sta l’essenza della dualità nelle relazioni. Io ho sostenuto il modello umanistico di un movimento inarrestabile verso crescita, sviluppo, contatto e relazione. (Davis, 2014). Questo è desiderio, conosciuto anche come investimento: la caratteristica universale di Freud, il processo di oggettificazione di Green, la natura duale di Guntrip, ecc.
Secondo la formulazione dei concetti energetici di Reich è possibile interferire con questo movimento verso la completezza e distorcerlo. Il pattern di interferenza, di solito genitori inadeguati d’un tipo o d’un altro, crea il bisogno. Ma questo movimento energetico, qui chiamato desiderio, non può essere eliminato. Non gli può mai essere impedito il tentativo di proseguire verso una completezza e un appagamento piacevoli. Questa qualità di investimento inattaccabile è la base delle relazioni sane e amorevoli, quando tutto va bene. Attraverso la comprensione di questa dualità nelle relazioni, diviene subito chiaro che quell’investimento inattaccabile è anche ciò che è alla base degli stati di bisogno distorti e disregolati, della sublimazione, del transfert, dell’identificazione proiettiva, ecc.
Questi stati di bisogno sono il riflesso del continuo tentativo di ottenere ciò che non si è avuto ed è ancora desiderato, di far accadere ciò che non è avvenuto. Ad esempio, nel transfert, il paziente non sta ricercando il padre originario nel terapeuta, ma piuttosto, come fa notare Guntrip, un “buon oggetto”: proprio ciò che non ha ottenuto nell’originaria relazione con il padre. Come ha detto Perls, il transfert riguarda “ciò che non è avvenuto” (Perls, 1972, p.40). In assenza di tale continua e ancor sana ricerca, la psicoterapia del profondo non sarebbe possibile. Non ci sarebbe guarigione, ma solo riparazione: nessuna ricostruzione ma solo un restauro.
Ciò che chiamo desiderio, Kohut (2001) lo ha definito “corrente narcisistica” che rimane inalterata durate il corso della vita – immutabile – e sta alla base della creatività, dell’amore, e di tutte le relazioni future. Anche trovando soddisfacimento, questa spinta innata verso lo sviluppo e la gratificazione continuerà spontaneamente a trasformarsi nella fase successiva dello sviluppo, come descritto nella gerarchia dei bisogni di Maslow e nella teoria delle relazioni oggettuali. È incorporata nella salute e mascherata nella disfunzionalità dis-regolata di un’intera vita. La paziente citata in precedenza ne è un esempio. Nonostante la sua storia traumatica e i suoi stati emozionali negativi, ha continuato a desiderare un padre amorevole e da amare, e una volta che questo è stato raggiunto, ha potuto lasciarsi alle spalle il risentimento e accedere a una relazione adulta, orientata alla realtà, con suo padre, e non rimanere in una relazione padre cattivo/figlia rancorosa.
Schore (1999), come Kohut (2001), hanno evidenziato questa ricerca continua di completezza, questa invariabilità. Gli fa eco Guntrip che scrive della sottile natura duale:
“Imbricata all’interno della comunicazione spesso eclatante dello stato dis-regolato del paziente, (bisogno nei termini della nostra discussione), è anche una richiesta, definita, apparentemente inudibile, impellente, di regolazione interattiva (desiderio/relazione). Questo è un fenomeno permanente”. (Schore, 1999, p.14).
Bowlby rifletteva questo quando descriveva l’attaccamento. “Sebbene particolarmente evidente durante la prima infanzia, l’attaccamento caratterizza gli esseri umani dalla culla alla tomba” (in LaPierre, 2015, p.86). Casavecchia, come già citato, ha fatto riferimento a una dualità anche quando si lavora con i pazienti: focalizzarsi sulle risorse emergenti (ciò che chiamo desiderio) e non sui deficit strutturali (bisogni).
In una precedente formulazione di questa stessa consapevolezza, Reich (1976) ha sottolineato che l’analisi non può procedere senza il raggiungimento di un “transfert genuino” con il paziente; “…i bagliori di un rudimentale amore genuino”; nuovamente, una sottile natura duale (Reich, 1976 p. 143). Reich ha compreso che il desiderio originario per l’oggetto è ancora intatto ma offuscato da falsi transfert positivi. Il transfert genuino è desiderio di contatto e relazione, radicato intrapsichicamente nell’endo sé. Il falso transfert positivo, il transfert di Guntrip, lo stato disregolato di Schore e le emozioni dall’armatura, sono bisogno e mancanza ancorati nella disfunzione e nella difesa e ricercati esternamente nell’oggetto.
Può essere interessante per i terapeuti orientati al corpo sapere che c’è anche una natura duale nel sistema nervoso centrale che potrebbe avere a che fare con l’efficacia del tocco in psicoterapia. Becker (in Oschman, 1997) ha mostrato che ci sono due sistemi nervosi all’interno del sistema nervoso centrale. Il primo è il ben noto sistema di fibre nervose e sinapsi che porta gli impulsi elettrici in corrente alternata. Questi nervi sono circondati da uno strato isolante di tessuto connettivo – la guaina mielinica – proprio come cavi elettrici. Gli impulsi sono condotti all’interno di queste guaine chiamate perinervio. In realtà tutti i maggiori sistemi hanno questa stessa inguainatura: il sistema perivascolare, il perilinfatico, il periosteo, e il miofasciale. Si tratta di una dualità perché anche lo strato isolante esterno conduce una corrente, una corrente elettrica diretta attraverso tutto il corpo! Ciò che è ancora più interessante è che questa corrente è la stessa delle onde cerebrali.
Becker descrive le proprietà dello strato di tessuto connettivo che circonda il sistema nervoso, chiamato perinervio. Ogni fibra nervosa nel corpo, fin alle sue terminazioni più sottili, è completamente racchiusa in cellule peri-neurali di un tipo o dell’altro. Becker ha riconosciuto un “sistema nervoso duale” composto dal classico network nervoso digitale (tutto o nulla, corrente alternata: CA), su cui si concentra la neurofisiologia moderna, e il sistema peri-neurale evolutivamente più antico che opera a corrente diretta (CD). Il sistema perineurale è un sistema distinto. Imposta una corrente a bassa tensione, chiamata corrente di lesione, che controlla la riparazione delle ferite. Le oscillazioni del campo di corrente diretta, chiamate onde cerebrali, dirigono il funzionamento complessivo del sistema nervoso e possono regolare la coscienza. (Oschmann, 1998, p. 41).[corsivo aggiunto]
Si è tentati di ipotizzare la possibilità che il tocco agisca sui sistemi perineurali in tutto il corpo, contattando quindi in modo diretto processi primari e riparando ferite sia fisiche sia psichiche. Potrebbe essere un modo corporeo per comprendere com’è possibile raggiungere i livelli profondi necessari per scendere al di sotto del trauma.
Il diagramma 1 qui sotto delinea il flusso duale in tutte le relazioni.
Diagramma 1 – Flusso duale in tutte le relazioni
La continuazione della freccia dritta (blu) oltre il punto di rottura rappresenta l’impulso originale – la caratteristica universale di Freud – dal sé/nucleo verso l’altro. La continuazione di questo impulso è imbricata all’interno dello stato distorto di bisogno rappresentato dalla freccia irregolare (rossa), a rivelare il desiderio ancor vivo di contatto e relazione che sta alla base di tutti gli stati nevrotici di bisogno. Poiché entrambe sono presenti allo stesso tempo in tutte le relazioni, Guntrip ha fatto riferimento a una “dualità”. E poiché entrambe sono presenti allo stesso tempo nel setting terapeutico, il terapeuta può scegliere su quale concentrarsi, il bisogno o il desiderio, la “risorsa emergente” o il “deficit strutturale”. Fairbain (in Buckley, 1996) ha raccontato che un paziente una volta gli ha detto “Io voglio un padre” deducendone che lo scopo della pulsione è l’oggetto. Io sostengo che ciò è corretto solo quando la pulsione è uno stato di bisogno, un desiderio frustrato. Differenziando tra bisogno e desiderio il terapeuta può scegliere di lavorare con il bisogno per un oggetto “un padre”, o con il desiderio “Io voglio…”.
Se è l’oggetto che soddisfa, come suggerisce Fairbain, perché accade che anche quando l’oggetto ha l’intenzione di soddisfare non può farlo? Come terapeuti conosciamo questo fenomeno. Ogni genitore conosce questa sensazione. Ogni amante lasciato conosce questa esperienza. Non ha a che fare con ciò che è offerto ma con ciò che viene preso.
La combinazione di questo desiderio immutabile di contatto, relazione e mutualità, e l’innata abilità del paziente di creare e ricreare i suoi oggetti, è all’origine di tutta la psicoterapia del profondo. Si trova nella natura duale delle relazioni, in ciò che non è avvenuto e nel concomitante desiderio di farlo avvenire. Senza questi due temi nel processo di una psicoterapia del profondo non può esserci guarigione. Ciò che ci resta è compensazione, adattamento, compromesso, e troppo spesso rassegnazione.
Green ha scritto:
“Ciò che porta un soggetto in analisi è un bisogno compulsivo [nei termini di questo articolo, ciò che non è avvenuto, desiderio] di ricostruire la sua storia così da poter andare avanti con la sua vita, una storia che egli né conosce né sa come vuole che sia; e ricreandola renderla diversa, rischiando, nel processo, di pagare i costi della finzione che vuole trasformare in realtà”. (2005, p. 424, [Italics added])
“Fino a che punto ciò che si svolge nel trattamento comporta una ripetizione del passato e fino a che punto riguarda non ciò che si è ripetuto, ma al contrario, ciò che non è mai stato vissuto.” (2005, p. 71, [Italics added])
D’altro canto, senza un qualche genere di modello, come io suggerisco, e come Strecker (2018) ha sottolineato, ci ritroviamo in una posizione molto diversa.
Stanley Keleman era sempre molto chiaro, per lui non esisteva nessun “vero sé” che potesse mostrarsi dopo aver rimosso tutte le distorsioni e le deformazioni dell’educazione e della biografia. Secondo la sua lucida analisi non esisteva nessuna guarigione, nel senso di trovare la condizione perfetta al di sotto della superficie dell’esistenza alienata. Quindi vi trovate ad avere a che fare con ciò che avete sviluppato finora, volontariamente e involontariamente. (p.54)
UN MODELLO FUNZIONALE PER RISCRIVERE LA STORIA
Mobilizzando l’instroke è possibile lavorare in modo sicuro con pazienti traumatizzati, andando al di sotto del livello corticale della cognizione e delle emozioni, al di sotto delle difese e anche al di sotto del trauma stesso, contattando quindi lo stato di endo sé non danneggiato in cui il paziente può “guarire” se stesso. Il trauma ha bisogno di oggetti, di altri. L’endo sé ricerca se stesso. Come spiegò un paziente, “amo me stesso al di là del buono e del cattivo.”
Nel discutere della pupillometria sottolineai che la percezione e l’immaginazione sono basate sugli stessi processi neurali e come risultato ciò che avviene nell’immaginazione sta realmente accadendo e non è una memoria. La ricerca neurologica ha confermato questo. Come Cozolino ed altri (2012) hanno sottolineato, tutto il trauma è immagazzinato a livello sotto-corticale e nel momento presente. La ricerca ha rivelato che gli eventi traumatici sono immagazzinati nelle regioni più primitive del tronco encefalico e nel cervello limbico, con poco coinvolgimento corticale e dell’emisfero sinistro, portando all’assenza di localizzazione della memoria nel tempo. “I flashback sono sempre esperienze presenti e totali del sistema” (Cozolino, 2002, p. 272-273), riflettendo la posizione assunta nella Dichiarazione di Cambridge (2012): “I substrati neurali delle emozioni…sono di conseguenza “fuori dal tempo”.”.
Tutta questa discussione conferma l’intuizione precedente di Reich:
“Non c’è antitesi tra lo storico e il contemporaneo. L’intero mondo esperienziale del passato era vivo nella forma manifesta degli atteggiamenti caratteriali. L’apparenza della persona è la somma funzionale di tutte le sue esperienze passate”. (1967, p. 121)
“Lo schizofrenico non “regredisce all’infanzia”. Regressione è soltanto un termine psicologico che descrive l’attuale, odierna incisività di certi eventi storici. Lo schizofrenico non “ritorna nell’utero materno”; ciò che egli realmente fa è divenire vittima della stessa scissione nella coordinazione del suo organismo di cui ha sofferto quando si trovava nel vicolo cieco del grembo materno; ed egli ha mantenuto tale scissione per l’intera vita. Abbiamo a che fare con funzioni effettive, attuali, dell’organismo e non con eventi storici”. (1976, p. 492)
Il diagramma II mostra come a livello più superficiale, psicosomatico/cognitivo, il paziente ha organizzato se stesso in risposta a un evento traumatico. Al di sotto si trova il trauma e come la persona si sta difendendo da esso a livello vegetativo. Il livello più profondo è l’endo sé non danneggiato che custodisce la capacità del paziente di trasformare eventi e oggetti e riscrivere la propria storia.
Diagramma II
Il livello psicosomatico contiene le emozioni e i sistemi cognitivo e neuromuscolare basati sul sistema nervoso centrale. Questo livello è la sede delle difese mente/corpo che proteggono il paziente dal trauma sottostante. Le difese, sotto forma di pensieri, emozioni e reazioni muscolari, sono risposte valutative del paziente a ciò che ancora teme di ri-vivere degli eventi storici. Nel caso del trauma, si tratta di una reazione di difesa ed evitamento di ciò che è accaduto, per impedire che venga vissuto nuovamente. Le difese sono valutative, decisioni prese per proteggere i pazienti da ciò che sperimentano come doloroso. Naturalmente, ciò che viene valutato è l’orrore del trauma che si trova al di sotto delle difese. Il paziente deve proteggere se stesso da questo abominio.
Qui si trovano anche i sintomi e la narrazione di come si è verificato il trauma e come esso continua a influenzare negativamente la vita del paziente. È quanto il paziente presenta nel setting terapeutico. Oppure, se il trauma è inconscio, la narrazione che si è formata attorno a quest’esperienza misconosciuta. Secondo Cozzolino (2006), la stragrande maggioranza delle memorie sono inconsce (pre-corticali), ma modellano le nostre esperienze emotive, l’immagine di sé, e le relazioni. Egli sottolinea che la velocità dell’amigdala nel processare le informazioni genera una reazione fisiologica prima che diveniamo coscienti di ciò che è stato processato. Egli lo chiama il “conosciuto e non ricordato” (Cozolino, 2016, p. 130) ciò che già Bollas (1987) aveva indicato come “il conosciuto non pensato”.
A livello cognitivo, un tema difficile circa memoria e narrazione, è se l’evento traumatico si sia verificato realmente oppure no. Kohut ha fatto riferimento al “telescoping”. Guardando attraverso il telescopio dalla parte opposta, le esperienze sono raggruppate insieme e condensate a formare una narrazione; uno scenario che potrebbe non essere affatto accaduto. In questo caso non si tratta di un evento ricordato, come crede il paziente, ma di una raccolta condensata di sensazioni correlate, esperienze, e ricordi misti che prendono forma in una narrazione coerente. Oliver Sachs (2017) fa notare che non è possibile registrare direttamente nel cervello degli eventi esterni. Secondo lui, l’unica verità di cui disponiamo è la verità narrativa, la verità che raccontiamo a noi stessi e agli altri.
È molto frustrante, per paziente e terapeuta, rintracciare questa “memoria” se non è accaduta, come invece il paziente crede. Allo stesso tempo è imperativo rispettare e accettare la versione del paziente di quanto accaduto. Freud era sconcertato dalle descrizioni di presunti abusi sessuali fatte dalle isteriche, fino a quando ha abbandonato il tutto. Mi è stato d’aiuto per chiarire questo tema quando una paziente, mentre stava parlando della sua storia di abuso, improvvisamente si interruppe guardandomi intensamente, e disse, “non mi importa se è successo oppure no. Io mi sento abusata!”. Ed è questo il punto: l’esperienza di una relazione o di un evento andato male. L’enfasi in terapia non riguarda la storia, il passato o l’oggetto. L’attenzione della terapia andrebbe posta sull’esperienza viva del paziente di ciò che potrebbe o non potrebbe essere avvenuto. È fin troppo semplice per paziente e terapeuta perdersi nella narrazione.
Muovendoci verso il basso nel diagramma, arriviamo al di sotto del livello cognitivo/neuromuscolare, psicosomatico, a uno stato precorticale, ancora di conoscenza, sul piano vegetativo: il conosciuto non pensato. E qui, di nuovo, abbiamo una valutazione. Al di sotto delle difese a base cognitiva-neuromuscolare, lo stato vegetativo è ancora fuori equilibrio a causa del trauma. La prima reazione dell’organismo a qualunque evento scioccante avviene a livello vegetativo. Se lo shock non è rilasciato, il sistema vegetativo resta fuori equilibrio: questo è il trauma. Non tutti gli shock sono traumatici. La risposta cognitiva/neuromuscolare è secondaria, costruita su una valutazione della risposta più primaria al pericolo del livello vegetativo. La risposta vegetativa è il livello vivo e attivo. Come si è detto, non è di carattere storico. Non è la storia di ciò che è accaduto, ma ciò che sta ancora avvenendo. Questo è il motivo per cui ci si deve difendere continuamente. Se fosse veramente nel passato non costituirebbe alcuna minaccia. Il problema, per il paziente, è che potrebbe accadere di nuovo proprio in questo momento, perché a questo livello non c’è tempo. È sempre ora. È sempre a perseguitare il paziente, minacciando di accadere ancora. Il livello narrativo psicosomatico riguarda quel che è avvenuto in “passato” e il paziente farebbe di tutto per tenerlo lì. In realtà, com’è comprensibile, lo sta semplicemente evitando, dissociandosi. Sfortunatamente, al più profondo livello vegetativo sta ancora avvenendo. Se tutto va bene, esso è contenuto dalla risposta vegetativa, ma non è stato eliminato. Per esempio, è più corretto parlare di processo schizoide, non di carattere schizoide. Più in basso nel diagramma, rappresentato nel funzionamento del tronco encefalico, troviamo l’endo-sé, il livello di ciò che non è accaduto, l’immutabile, incompleto desiderio di un contatto e di una relazione soddisfacenti.
Il livello psicosomatico è la manifestazione dell’incompletezza in termini del comportamento basato sul bisogno: eccessiva dipendenza dall’oggetto; isolamento da, o rifiuto dell’oggetto; transfert; falso transfert positivo; proiezione; identificazione proiettiva; idealizzazione, ecc. A livello vegetativo incontriamo l’esperienza del trauma “vivo” ingabbiato, lo stato contratto, squilibrato della risposta vegetativa a questo evento vivente non storico. Al livello più profondo troviamo il nucleo di coscienza soggettivo, incarnato, di Solms e Panksepp, che ha sede nel tronco encefalico; gli stati dell’essere di Maslow; il core di Reich; o la sintesi da me elaborata di questi tre, l’endo-sé non danneggiato.
Un paziente ha descritto questo stato nei termini seguenti: “percepisco un’estrema presenza in assenza di me stesso”. Un’altra paziente ha commentato: “Lei è tornata!”. Ma chi è tornata e dov’era tutto il tempo? La risposta è l’immutabile endo-sé non danneggiato, la fonte originaria del desiderio di contatto e relazione gratificante e della continua speranza che ciò che non è accaduto possa accadere. È qui che il sé cerca, sceglie, crea e trasforma oggetti ed esperienze. È un processo individuale, autoreferenziale, interpretativo che decide e crea la propria realtà sulla base dell’esperienza di se stessi, non dell’altro.
Una recente seduta avuta con una paziente dalla storia traumatica, ha rivelato le stesse qualità dello stato di endo-sé descritte in precedenza. Spesso in Analisi Funzionale non accade nulla durante le sedute, e il fenomeno sorprendente descritto prima, il rilascio del trauma e la riorganizzazione dell’oggetto, avviene in modo sicuro in seguito. In questo caso, utilizzando una vecchia tecnica di mobilitazione, il parziale rilascio di una profonda contrazione a livello vegetativo ha permesso il coinvolgimento dell’intero corpo durante la seduta. A quel punto la paziente ha iniziato il movimento dolce, raccogliente, accovacciante, dell’in-stroke, con la testa e le spalle che si alzavano con grazia dal tappetino. Ma improvvisamente interruppe questo movimento naturale e fluido con una forte contrazione nei romboidi, tirando le spalle all’indietro, contraendo la gola e impedendo ogni ulteriore movimento di raccoglimento e di instroke. Invece che cercare di contrastare quanto stava accadendo ho sostenuto questo movimento difensivo mettendo la mano sui suoi romboidi, e per qualche istante ho applicato una leggera pressione verso l’alto, in direzione della contrazione. Poi le ho detto di stirarsi e muoversi sul tappetino, e lei mi ha descritto la qualità di blocco e interruzione che aveva percepito nella contrazione dei romboidi. Dopo aver parlato ed essere ritornati al lavoro sul tappetino, si è presentato di nuovo lo stesso movimento verso l’alto di prima, ma questa volta lei non lo ha interrotto, e raccogliendo se stessa, si è ritrovata in una posizione accovacciata a forma di palla, in cui si sentiva appagata.
In seguito le ho chiesto “cosa è successo al blocco/contrazione? Dov’è andato?” Lei rispose:
“Si è unito alla festa! Che bello. Ci dice come il nostro corpo e ogni parte del nostro sé è a favore di noi stessi. Mi sento fluida, un’unità. Crea una nostalgia in me. Una bellezza che voglio sempre di più essere.”
Osservai che la nostalgia comporta qualcosa di conosciuto; qualcosa che hai avuto o conosciuto e che vuoi avere di nuovo.
“Esattamente.” Mi disse. “Per tornare a quello che ero una volta – chi sono io. Sono un’unità. La contrazione nella parte posteriore delle spalle mi separava da me stessa. Poi ho capito che tutto era intatto. All’inizio, ho sentito questa rigidità qui (romboidi) e quando l’ho rilasciata, mi sono resa conto del mio cuore”.
LA GUARIGIONE INIZIA DOPO LA FINE DEL TRAUMA
La guarigione inizia dopo che i pazienti hanno concluso con il trauma. Possono allora andare avanti con le loro vite e proseguire il tracciato evolutivo ancora intatto che era stato ostacolato, o cosa più importante, possono cominciare ciò che non ha mai avuto opportunità di sviluppo a causa della natura restrittiva delle difese contro il trauma. I pazienti devono essere accompagnati attraverso questo nuovo territorio. Avendo gettato via le restrizioni imposte dal trauma, sono ora in grado di mobilitare la loro motivazione intrinseca: ricercare ciò che non è avvenuto. Dovrebbero essere sostenuti così come si sostiene un bambino che impara a camminare. Non lo facciamo al posto loro, non li trasciniamo, ci limitiamo a sostenerli nell’esplorare e nel divenire se stessi.
Il processo di guarigione attraversa diverse fasi. Una volta che il trauma è “finito”, l’evento cancellato, la figura dell’abusante dissolta nella storia, emerge la sensazione di essere stati abbandonati dagli altri. Potrebbe esserci una fase di colpevolizzazione: loro dov’erano? perché non mi hanno protetto? Come può essere accaduto proprio a me? (in qualità di terapeuti anche noi a volte ci chiediamo durante una seduta “come è potuto accadere?”). Possiamo considerarlo uno stato negativo di critica, ma in realtà è una nascente, emergente, auto affermazione.
Poi c’è un accettazione, anche una sorta di perdono. Non è solo uno scendere a patti, attraverso una comprensione intellettuale adulta, ma un lasciar andare. Il segnale di questo si ha quando il paziente inizia a rivedere il passato e differenziare persone, eventi, ricordi, da ciò che era un groviglio pericoloso, oscuro, stretto, condensato, confuso, di persone, luoghi, eventi, ricordi ed emozioni. A questo punto non c’è nessuna colpa. La narrazione ha una qualità neutra, esprimendo a volte premura e tenerezza nei confronti di altri storicamente coinvolti, anche nei confronti dei responsabili e anche riconoscendo, in alcuni casi, il proprio contributo ai comportamenti abusanti.
Il paziente riconosce gli altri non solo come oggetti ma come persone. Per esempio, tre diversi pazienti hanno commentato in modo simile: “è un uomo malato. Mi dispiace per lui.” “È triste che mio padre non possa gioire delle mie conquiste.” “Era un uomo stupido, e gli uomini stupidi fanno cose stupide. Non era rivolto contro di me, ma io ho sofferto.” C’è una qualità adulto verso adulto con tutte le imperfezioni implicate in una simile relazione realistica.
Una versione sorprendentemente condensata di questo processo si è verificata durante una serie di quattro sessioni nel corso di due giorni. Nella terza sessione, il paziente arriva con un sogno di quella mattina: era in un istituto di igiene mentale e attorno a lui avveniva tutta una serie di comportamenti bizzarri. Tra la mischia riconobbe come suo padre e sua madre due figure: un uomo che stava gridando pericolosamente, e una donna avvolta “come una mummia”.
Vide questa scena come la realtà della sua vita familiare dell’infanzia e per la prima volta poteva vederne la brutalità. Ciò che è interessante è che questo genere di sogno non è nuovo. Egli aveva lavorato su questo tema nel corso della sua precedente terapia. L’elemento nuovo era che per la prima volta era presente quella che chiamava “chiarezza”. In precedenza ogni cosa era “come in una nuvola”, la realtà delle brutalità era troppo brutale per poterla vedere chiaramente. Ora non era pericoloso accettare tale realtà, era sicuro di fronte ad essa. Gli ho posto la stessa domanda che ho fatto all’inizio di questo articolo: “dove hai trovato la forza per superare tutto questo?”, il paziente lo descrive in questo modo: “Si è sviluppato qualcosa dentro di me in modo che potessi affrontare questa verità. Un processo biologico. Non so cosa sia (mentre inconsciamente toccava il suo addome con tenerezza) ma è un processo di guarigione. La mia risorsa.”
Poi disse di essere grato ai suoi genitori, nonostante tutte le cose cattive che avevano fatto. Mentre parlava c’era un senso di riconoscimento, accettazione, e di liberazione dal senso di colpa, il perdono di una offesa: un’assoluzione.
SOMMARIO
Durante la fase del trattamento fisico, quando generalmente il paziente e io non conversiamo, una paziente improvvisamente ha aperto gli occhi senza rivolgersi a nessuno in particolare dicendo, “Abusata e ancora viva”, poi ha sorriso. Non si trattava di un racconto o del rivivere il trauma e le sofferenze che ne derivavano. Era una profonda auto-affermazione, “Io l’ho fatto”. Non era bloccata nel trauma o nelle difese attorno al trauma, era al di sotto di questo, ad affermare se stessa. Lei era ancora lì.
Ho sostenuto che nonostante sia avvenuto l’inimmaginabile, esiste ancora una riserva, una risorsa che continua a cercare unità, interezza e relazioni appaganti. Si trova al di sotto delle difese e sotto il tumulto del trauma, contenuta dal sistema vegetativo: l’endo-sé. Se non ci perdiamo nel dramma della narrazione – il passato storico – e lavoriamo al di sotto delle difese, contattando e sostenendo il sempre presente, incorporato, sottile desiderio di contatto all’interno di ogni relazione, possiamo aiutare i pazienti a non essere più perseguitati dal loro “passato vivente”.
Lo psicoanalista Hans Loewald ha descritto questo processo:
“Coloro che conoscono i fantasmi ci dicono che i fantasmi desiderano essere liberati dalla loro vita fantasma, e messi a riposare come antenati. Come antenati continuano a vivere nella generazione attuale, mentre come fantasmi sono costretti a perseguitare la generazione attuale con la loro vita d’ombra…fantasmi dell’inconscio imprigionati dalle difese ma che infestano il paziente nel buio delle sue difese e sintomi. Alla luce dell’analisi, i fantasmi dell’inconscio vengono messi a riposo come antenati il cui potere viene ripreso e trasformato nella nuova intensità della vita presente, del processo secondario e degli oggetti attuali. (in Mitchell, 2000, p. 25)
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