Perché la psicoterapia non può essere fatta da un’intelligenza artificiale

Sono uno psicologo e psicoterapeuta a orientamento corporeo, e negli anni ho integrato nella mia formazione approcci come la bioenergetica, la biosistemica, la psicologia sensomotoria e l’analisi funzionale. Lavoro quotidianamente con le persone a partire da un assunto semplice: il cambiamento terapeutico avviene nella relazione tra due esseri umani, due corpi, due storie che si incontrano.

Negli ultimi tempi si parla sempre più spesso di strumenti di intelligenza artificiale in ambito psicologico. Alcuni si chiedono se l’IA possa diventare un supporto efficace alla psicoterapia, se non addirittura una sua possibile alternativa. È una domanda legittima, e come professionista sento la responsabilità di offrire alcune riflessioni essenziali, chiare e, a mio avviso, incontrovertibili.

La terapia è relazione incarnata

La psicoterapia non è un insieme di tecniche, né un semplice scambio di informazioni o di consigli. È un processo che avviene nello spazio della relazione tra due soggetti umani. Non è solo ciò che ci diciamo a curare, ma come ci incontriamo: negli sguardi, nei silenzi, nelle attivazioni corporee, nelle pause, nei gesti impercettibili. La presenza dell’altro, in carne e ossa, è il fondamento stesso dell’esperienza trasformativa.

Non si tratta di romanticismo o di attaccamento a vecchi paradigmi. Le neuroscienze interpersonali ci offrono oggi solide basi per comprendere come questo avvenga. Le teorie di Gallese, con il concetto di simulazione incarnata e la scoperta dei neuroni specchio, ci mostrano che il nostro cervello è strutturalmente predisposto a sentire l’altro nel corpo, attraverso un processo implicito e non verbale. È questo tipo di scambio, profondamente umano, che rende possibile il cambiamento.

Un algoritmo non ha corpo

Un’intelligenza artificiale, per quanto sofisticata, non ha un corpo vivo, né una storia incarnata. Non respira, non suda, non prova emozioni, non si emoziona davanti a me. Può elaborare dati, riconoscere pattern, formulare risposte in apparenza empatiche. Ma tutto questo avviene fuori dalla relazione reale. Può simulare la relazione, ma non può viverla.

E non è un dettaglio: è la sostanza del lavoro terapeutico. Quando un paziente si sente visto, riconosciuto, accolto nella sua esperienza, non è solo grazie alle parole del terapeuta, ma grazie alla qualità della presenza che si costruisce momento per momento. Una qualità fatta anche di errori, riparazioni, attese, sintonizzazioni corporee. L’IA non può sbagliare in modo umano, non può riparare in modo autentico. E quindi non può farci fare esperienza di una relazione che cura.

Un’illusione che può fare danno

Affidarsi a una IA per un “percorso terapeutico” non solo non è sufficiente: rischia di essere dannoso. Perché alimenta l’idea che basti una risposta giusta, una tecnica mirata, una spiegazione convincente per stare meglio. Ma la sofferenza psichica non è un errore da correggere, è una richiesta di incontro. E se questa richiesta trova solo una risposta algoritmica, priva di corpo, di tempo e di umanità, il rischio è quello di rinforzare un senso di solitudine, di inadeguatezza, di disconnessione.

Inoltre, delegare alla macchina una funzione così profondamente umana come quella della cura psicologica rischia di alimentare una cultura della disincarnazione e della ipersemplificazione del disagio. Ma il dolore umano non si semplifica: si ascolta, si attraversa, si condivide.

Non scrivo queste riflessioni per difendere una professione o un ruolo, ma per affermare un principio che per me è fondamentale: la terapia è relazione, ed è una relazione tra due corpi umani. È fatta di presenza, di contatto, di esperienze condivise nel qui e ora.

L’intelligenza artificiale può essere un utile supporto in molti ambiti. Ma non può sostituire la profondità trasformativa di un incontro umano. E soprattutto, non può offrire ciò che più di ogni altra cosa cura: una relazione vera.

Mindfulness: tra benefici provati e possibili effetti collaterali

La mindfulness è una pratica meditativa antica, oggi diffusa in tutto il mondo come tecnica per ridurre lo stress e promuovere il benessere mentale. Negli ultimi anni la popolarità della mindfulness è esplosa. Questa forma di meditazione di consapevolezza, originaria della tradizione buddhista, viene proposta ovunque: dalle cliniche ai corsi online, dalle aziende alle scuole, fino alle numerose app sullo smartphone. I suoi benefici sono spesso decantati da coach e media, presentandola quasi come un toccasana universale. In effetti, numerose ricerche scientifiche hanno dimostrato effetti positivi della pratica meditativa: ad esempio, modeste ma significative riduzioni dei sintomi di ansia e depressione e un aiuto nella gestione del dolore cronico. In ambito clinico, protocolli basati sulla mindfulness (come la Mindfulness-Based Stress Reduction, MBSR, e la Mindfulness-Based Cognitive Therapy, MBCT) vengono utilizzati per ridurre lo stress, prevenire le ricadute della depressione e affiancare i trattamenti per disturbi d’ansia, dipendenze e persino insonnia. Il Servizio Sanitario britannico (NHS) raccomanda la mindfulness come supporto per evitare ricadute depressive in pazienti con storia di depressione. Insomma, le potenzialità positive ci sono e sono documentate. Ma la meditazione è davvero sempre benefica e priva di rischi?

Benefici dimostrati: come la mindfulness può aiutare

Prima di affrontare il “lato oscuro” è importante riconoscere i benefici comprovati della mindfulness. Numerosi studi hanno esaminato gli effetti di programmi di meditazione mindfulness sulla salute mentale. In generale, la pratica regolare della mindfulness può contribuire a:

  • Ridurre ansia e stress: Dopo circa 8 settimane di allenamento mentale, si osservano in media cali moderati dei livelli di ansia e stress percepito. Le tecniche di respiro e focalizzazione aiutano a interrompere il circolo vizioso di preoccupazioni, favorendo un maggiore rilassamento.
  • Alleviare i sintomi depressivi: Nei soggetti con depressione, la meditazione è associata a un miglioramento dell’umore e a una diminuzione dei pensieri negativi ricorrenti. In pazienti con episodi depressivi ricorrenti, programmi come la MBCT si sono dimostrati efficaci nel prevenire nuove ricadute, tanto da essere integrati nelle linee guida cliniche.
  • Migliorare la gestione del dolore cronico: Tecniche mindfulness vengono applicate con successo in contesti di dolore cronico (ad esempio in pazienti con artrite reumatoide o fibromialgia). I partecipanti apprendono a osservare il dolore con un atteggiamento non giudicante, il che può ridurre la sofferenza percepita e l’uso di farmaci analgesici. Studi clinici riportano riduzioni significative dell’intensità del dolore e un aumento della capacità di farvi fronte grazie alla meditazione.
  • Incrementare concentrazione e benessere generale: Molti praticanti riferiscono una mente più lucida, miglior concentrazione e memoria operativa dopo un periodo di meditazione costante. Inoltre, la mindfulness può favorire un miglioramento della qualità del sonno, aiutando a gestire l’insonnia legata allo stress. Alcune ricerche di neuroscienze suggeriscono persino cambiamenti plastici nel cervello: ad esempio, un celebre studio ha osservato una riduzione del volume dell’amigdala (una regione associata a paura e stress) dopo un ciclo di meditazione mindfulness, indicando minori reazioni di stress.

Vale la pena notare che, pur essendo efficace per molte persone, la mindfulness non è una panacea. Le meta-analisi indicano che gli effetti positivi tendono a essere di entità moderata e che la meditazione non supera le terapie tradizionali (farmaci, esercizio fisico, psicoterapia) nei confronti diretti. Ad esempio, la pratica meditativa migliora l’ansia e l’umore in modo simile ad altre tecniche di gestione dello stress, ma non fa miracoli su aspetti come attenzione, dieta o altre abitudini se confrontata con interventi specifici. In altre parole, la mindfulness è un utile strumento aggiuntivo per il benessere mentale e fisico, ma va integrata in un contesto di cura complessivo e non considerata un rimedio magico per qualsiasi problema.

Cresce l’attenzione sugli effetti collaterali della meditazione

Accanto alle ricerche sui benefici, nell’ultimo decennio sono aumentati gli studi che indagano i possibili effetti collaterali della meditazione mindfulness. Si tratta di un filone di ricerca nato per equilibrare l’entusiasmo che circonda questa pratica con una valutazione più realistica e completa. Contrariamente a quanto molti pensano (il mito che “meditare non può fare male perché è solo rilassamento”), gli studiosi stanno documentando che una quota non trascurabile di praticanti sperimenta reazioni avverse durante o dopo la meditazione.

  • Uno studio del 2022 pubblicato sulla rivista Psychotherapy Research ha condotto un’indagine su 953 meditatori abituali negli Stati Uniti, rilevando che oltre il 10% di essi ha riportato effetti negativi significativi sulla propria vita quotidiana attribuibili alla meditazione. Per circa l’1% dei partecipanti, tali effetti indesiderati sono durati più di un mese, interferendo con il normale funzionamento. Queste percentuali indicano che, sebbene la maggior parte delle persone non abbia problemi, le reazioni avverse non sono affatto rare come si crede.
  • La più grande ricerca nelle scuole (il progetto Myriad, Regno Unito) ha coinvolto oltre 8.000 studenti tra gli 11 e i 14 anni in 84 scuole, confrontando un programma di mindfulness scolastico con le attività di supporto tradizionali. I risultati, pubblicati nel 2022 su una rivista del gruppo BMJ, non hanno evidenziato miglioramenti della salute mentale nei ragazzi che praticavano mindfulness rispetto al gruppo di controllo. Anzi, sorprendentemente, tra gli studenti già a rischio di problemi psicologici, quelli esposti al programma di meditazione hanno mostrato un peggioramento di alcuni indicatori, suggerendo che la mindfulness potrebbe aver avuto un effetto detrimentale su di loro. Questo esito inatteso ha fatto riflettere gli esperti: la mindfulness proposta in modo “universale” a scuola potrebbe non essere adatta a tutti e in alcuni casi rischia di essere controproducente.
  • Un’ampia revisione scientifica del 2020, condotta da un team dell’Università di Coventry, ha passato in rassegna oltre 50 studi pubblicati negli ultimi decenni sugli effetti avversi della meditazione. I ricercatori hanno stimato che circa l’8% dei praticanti di tecniche meditative riporta qualche effetto indesiderato significativo. Si tratta di quasi 1 persona su 12, una proporzione non irrilevante (in medicina, un effetto collaterale con incidenza superiore all’1% è considerato “comune”). Gli effetti negativi più frequenti emersi da questa revisione sono stati: ansia accentuata (riportata nel 33% degli studi esaminati), umore depresso o peggioramento di depressione (27%) e varie anomalie cognitive come confusione e disorientamento (25%). Meno comuni, ma comunque documentati, effetti avversi includevano anche problemi fisici (disturbi gastrointestinali) e persino idee suicidarie in alcuni casi (segnalati in circa l’11% delle ricerche).

Queste percentuali e risultati provengono da contesti diversi e non significano che la mindfulness causi automaticamente tali problemi. Tuttavia, indicano chiaramente che meditare non è sempre un’esperienza solo piacevole o neutra. Alcune persone, in certi contesti, possono andare incontro a peggioramenti del proprio stato mentale correlati alla pratica meditativa. Gli studiosi sottolineano che ciò non deve allarmare indebitamente, ma va riconosciuto apertamente: così come per qualunque intervento sulla psiche (terapie, farmaci, esercizio intenso), esiste una variabilità individuale nelle reazioni, e una parte dei praticanti può sperimentare effetti indesiderati transitori o persistenti.

Quali sono le reazioni avverse più comuni?

Ma di che tipo di “effetti collaterali” parliamo esattamente? La ricerca ha identificato una vasta gamma di esperienze negative associate alla meditazione, che vanno dal piano psicologico, a quello fisico, fino a quello percettivo. Ecco alcuni esempi di reazioni avverse documentate:

  • Aumento di ansia, panico o paura: Paradossalmente, una delle reazioni più segnalate è l’acuirsi dell’ansia durante o dopo la meditazione. Alcuni praticanti riferiscono sensazioni di panico, paura intensa o attacchi di ansia improvvisi durante sessioni di mindfulness. In casi riportati, l’individuo può sviluppare ipervigilanza e inquietudine invece che rilassamento.
  • Umore depresso e apatia: Altri riportano un peggioramento del tono dell’umore, sentimenti di tristezza profonda o disperazione emergere senza un motivo apparente. In certe testimonianze, persone senza precedenti di depressione hanno sperimentato episodi depressivi dopo aver iniziato una pratica intensa. Può manifestarsi anche apatia o perdita di interesse per attività prima gradite (come se le emozioni si “spengessero”).
  • Dissociazione e depersonalizzazione: Un gruppo consistente di effetti riguarda alterazioni della percezione di sé e della realtà. Si parla di esperienze dissociative, in cui il meditante sente di essere distaccato dal proprio corpo o dalle proprie emozioni, come osservatore esterno. Alcuni descrivono episodi di depersonalizzazione, ossia la sensazione di non riconoscersi, di essere “estranei” a se stessi o che il mondo circostante diventi irreale. Queste esperienze possono essere molto inquietanti, dando la percezione di stare “impazzendo” anche se sono fenomeni transitori.
  • Sintomi psicotici o allucinatori: Nei casi più estremi, la letteratura riporta episodi di psicosi indotta da meditazione. Ciò include allucinazioni visive o uditive, visioni vivide durante la meditazione, oppure pensieri paranoidi e deliri di vario tipo. Tali eventi sembrano più probabili in soggetti con una vulnerabilità preesistente, ma sono stati osservati occasionalmente anche in persone senza diagnosi psichiatriche precedenti.
  • Iper-sensibilità e insonnia: Alcuni praticanti sviluppano una marcata ipersensibilità sensoriale: per esempio, suoni e luci diventano insopportabili, oppure aumenta la sensibilità alle sensazioni corporee (fino a percepire fastidio o dolore per stimoli minimi). All’opposto, altri sperimentano ipo-arousal (ipo-attivazione), sentendosi intorpiditi o come se il corpo non rispondesse. Disturbi del sonno come insonnia persistente dopo ritiri intensivi di meditazione sono stati riportati in diversi casi studio. Difficoltà a dormire, incubi o sonno disturbato possono comparire quando la pratica meditativa agita contenuti mentali profondi.

È importante sottolineare che molte di queste esperienze possono essere transitorie. In contesti controllati (ad es. ritiri con istruttori esperti), sintomi come visioni, tremori, pianti improvvisi, ondate di paura o euforia vengono talvolta interpretati come parte del processo di meditazione profonda. Nelle tradizioni contemplative orientali, infatti, esiste da secoli la consapevolezza che la meditazione possa comportare fasi difficili: i monaci tibetani, ad esempio, chiamano nyams una vasta gamma di “esperienze meditative” insolite che possono verificarsi – dalle estasi beatifiche fino a dolore fisico intenso, confusione mentale, ira improvvisa o tristezza profonda. Anche nello Zen è noto da tempo il fenomeno della “malattia da meditazione” (Zen sickness), una sorta di crisi esistenziale con sintomi simili alla depressione, descritta nei testi antichi. Insomma, non si tratta di scoperte moderne: le potenziali difficoltà erano già documentate nei manuali buddhisti più antichi, che mettevano in guardia sui possibili stati di angoscia, disorientamento o persino sintomi psicotici durante il cammino meditativo.

Quello che le ricerche recenti stanno facendo è portare questi temi all’attenzione della scienza occidentale contemporanea. Tradizionalmente, un maestro spirituale preparava i discepoli ad affrontare eventuali crisi durante la meditazione, considerandole tappe di crescita. Oggi, con la mindfulness diffusa al di fuori del contesto religioso – spesso insegnata in corsi brevi o auto-appresa con app – molte persone non hanno alcun riferimento su come gestire queste esperienze. Ciò può rendere gli effetti collaterali più spaventosi e destabilizzanti, perché l’aspettativa tipica dell’utente occidentale è che la meditazione debba solo rilassare e far stare meglio. Invece, come abbiamo visto, possono emergere emozioni o sensazioni negative che il praticante non si aspettava.

Perché la mindfulness può avere effetti negativi?

Viene spontaneo chiedersi: per quale motivo una pratica pensata per il benessere può generare ansia, paura o altri problemi? Le spiegazioni non sono ancora definitive, ma psicologi e neuroscienziati hanno formulato diverse ipotesi plausibili.

Una chiave di lettura è che la mindfulness richiede di osservare attivamente il proprio mondo interiore, accogliendo anche le emozioni negative invece di evitarle. Questo processo, benefico sul lungo termine, può nell’immediato scoperchiare traumi o ricordi dolorosi che la mente aveva represso. Ad esempio, una persona con esperienze traumatiche passate potrebbe, meditando, rivivere frammenti di quei traumi (flashback emotivi) che emergono nella coscienza. Senza un adeguato supporto terapeutico, questo riemergere di vecchie ferite può risultare travolgente e causare un incremento di ansia, incubi o depressione. In pratica, la meditazione fa silenzio nella mente, ma in quel silenzio possono farsi sentire voci interiori inquietanti che normalmente vengono messe a tacere dalla frenesia quotidiana.

Un altro fattore è il conflitto con lo stile di vita occidentale moderno. La mindfulness coltiva l’accettazione di sé e l’attenzione al momento presente, valori che possono entrare in collisione con una società improntata alla competitività, al multitasking e alla performance a tutti i costi. Aumentare la consapevolezza dei propri bisogni profondi può portare una persona a rendersi conto di non essere felice nel proprio lavoro o nella propria routine di vita, generando inizialmente scontento o crisi interiori. In altri termini, la meditazione può mettere in discussione l’equilibrio precedente: se tale equilibrio era basato sul “correre e non pensare”, fermarsi a osservare può far emergere un’insoddisfazione latente e quindi, paradossalmente, un temporaneo peggioramento del benessere psicologico.

Infine, va considerato l’aspetto fisiologico. Durante la meditazione possono avvenire cambiamenti nel sistema nervoso: ad esempio un’eccessiva attivazione del sistema parasimpatico o squilibri nella chimica cerebrale temporanei. Alcuni esperti ipotizzano che certe tecniche meditative intensive possano indurre stati simili a una deprivazione sensoriale o a un’iperventilazione controllata, con conseguenti sintomi fisici (vertigini, formicolii, alterazioni percettive) che possono spaventare chi li vive. Questi fenomeni normalmente si risolvono spontaneamente, ma se non se ne è informati in anticipo possono essere fraintesi come segnali di qualcosa che non va.

Praticare in sicurezza: consigli e miti da sfatare

Visti sia i lati positivi che quelli potenzialmente negativi della mindfulness, come possiamo praticarla in sicurezza e con consapevolezza? Anzitutto, è importante sfatare alcuni miti comuni per avere aspettative realistiche:

  • Mito: “La mindfulness è sempre benefica e priva di controindicazioni.”
    Realtà: La mindfulness offre molti benefici, ma non è vero che faccia bene a chiunque in qualsiasi circostanza. Studi scientifici hanno rilevato che circa 1 praticante su 10 può andare incontro a effetti avversi significativi sulla salute mentale. Dunque, non bisogna vivere con senso di colpa o delusione eventuali difficoltà durante la meditazione: succede a una minoranza consistente di persone, non è “colpa” del praticante e soprattutto non significa essere incapaci o “sbagliati”. Significa semplicemente che, come ogni intervento psicologico, anche la meditazione può avere effetti diversi a seconda della persona e del contesto.
  • Mito: “Meditare è solo rilassamento, quindi non può farmi male.”
    Realtà: Sebbene la meditazione spesso induca rilassamento, non è una semplice tecnica di respirazione distensiva. È un processo più profondo che può innescare reazioni emotive intense. Sono documentati casi di attacchi di panico, aumentata ansia, sbalzi di umore e altri sintomi durante percorsi di mindfulness. Questo non vuol dire che la meditazione “faccia male” in sé, ma che richiede rispetto e cautela, proprio come uno sport estremo potrebbe causare infortuni se praticato senza guida. Non è un banale esercizio di rilassamento: è un allenamento mentale che smuove dinamiche profonde.
  • Mito: “La mindfulness può sostituire la terapia o i farmaci.”
    Realtà: Per alcune condizioni, la mindfulness è complementare ma non sostitutiva di trattamenti clinici. Ad esempio, chi soffre di depressione maggiore, disturbo bipolare, disturbi psicotici o disturbo borderline dovrebbe praticare la meditazione solo all’interno di un percorso terapeutico qualificato. Tentare un fai-da-te sperando di guarire da soli con la meditazione può essere rischioso: in alcuni casi sono stati osservati peggioramenti dei sintomi, specialmente se mancano supporto e monitoraggio professionale. La mindfulness può ridurre la necessità di farmaci (ad esempio aiutando a prevenire ricadute depressive, così che si possano scalare gli antidepressivi sotto controllo medico), ma non va vista come un rimpiazzo diretto delle cure tradizionali. Meglio considerarla un potente alleato da integrare nel piano di trattamento, non un sostituto.
  • Mito: “Tutti possono fare mindfulness da soli, basta un’app o un video.”
    Realtà: È vero che esistono ottime app e risorse online, e molti traggono beneficio dall’introdurre da soli qualche minuto di meditazione al giorno. Tuttavia, bisogna essere consapevoli che la pratica autonoma e di massa tramite app comporta dei limiti. Gli esperti avvertono che fornire meditazione “in pillole” a chiunque senza alcun filtro o supporto è un po’ come distribuire un farmaco senza bugiardino. La maggior parte dei corsi e delle applicazioni non informa adeguatamente sui potenziali effetti collaterali, lasciando i praticanti soli a fronteggiare eventuali difficoltà. Se una persona inizia a stare male durante la meditazione guidata dall’app, potrebbe non sapere a chi rivolgersi. Il consiglio è di usare queste risorse con leggerezza per iniziare, ma se si decide di approfondire la pratica o se si hanno già fragilità psicologiche, è preferibile avere un istruttore qualificato. Un insegnante esperto può riconoscere segnali di allarme, adattare la tecnica alla persona e soprattutto fornire supporto in caso di esperienze spiacevoli. Come dice la ricercatrice Willoughby Britton di Brown University, “il fatto che riceva telefonate da meditatori in difficoltà indica che non stanno ricevendo supporto adeguato da chi li ha introdotti alla meditazione”. Non vergognatevi dunque di chiedere aiuto se la mindfulness dovesse provocare malessere: ascoltare il proprio stato mentale è esso stesso praticare consapevolezza.

Conclusioni: equilibrio e consapevolezza (in tutti i sensi)

La mindfulness resta un prezioso strumento per la crescita personale e il benessere. I suoi effetti positivi – dalla riduzione dello stress al miglioramento della resilienza emotiva – sono confermati da molte evidenze scientifiche e dalle esperienze di milioni di praticanti nel mondo. Tuttavia, è fondamentale promuovere una cultura della consapevolezza anche sui possibili rischi, senza allarmismi ma con onestà intellettuale. Come per qualsiasi tecnica terapeutica, conoscere benefici e limiti permette di sfruttarla al meglio.

In Oriente si dice che la meditazione insegni ad “abitare pienamente se stessi”. Questo percorso, a volte, passa per stanze buie della nostra mente che preferiremmo evitare. Affrontarle fa parte del processo di crescita, ma dev’essere fatto con gli strumenti giusti. Informazione corretta e supporto sono le chiavi: sapere che potrebbero verificarsi reazioni avverse (e che non siamo soli nel caso accadano) ci aiuta a gestirle con meno paura. Inoltre, poter contare su guide esperte o terapeuti può fare la differenza tra un’esperienza temporaneamente difficile ma superabile, e un’esperienza che degenera in sofferenza protratta.

In conclusione, praticare mindfulness in modo sicuro significa approcciarsi ad essa con equilibrio: né con ingenuità e aspettative miracolistiche, né con timore eccessivo. Significa ricordare che è uno strumento potente, da maneggiare con cura – come suggerisce il titolo provocatorio di un articolo, “Why Meditation Might Need a Warning Label” (“Perché la meditazione potrebbe aver bisogno di un’etichetta di avvertimento”). La corretta informazione sfata miti e alimenta una pratica più matura. Con questa consapevolezza, la mindfulness può davvero offrire il meglio di sé, aiutandoci a vivere con presenza mentale, serenità e – perché no – a conoscerci più a fondo, senza sorprese indesiderate.

Fonti: Le informazioni e i dati citati provengono da ricerche scientifiche e articoli divulgativi recenti, tra cui Psychotherapy Research (2022), Evidence-Based Mental Health (BMJ, 2022), una revisione sistematica su Acta Psychiatrica Scandinavica (2020), approfondimenti di esperti pubblicati su Greater Good Science Center, Brown University e altri media scientifici (Focus, The Guardian, Vice, ClinicalAdvisor) citati nei riferimenti. Queste fonti confermano da un lato i benefici consolidati della mindfulness, e dall’altro la necessità di un approccio informato riguardo ai suoi possibili effetti collaterali. In definitiva, una buona pratica di mindfulness è quella accompagnata da consapevolezza a 360 gradi: verso il momento presente, ma anche verso ciò che dice la scienza.

ripensare la depressione oltre il mito della serotonina

Fine del mito della serotonina?

Cosa sta cambiando nella comprensione della depressione?

A gennaio 2025 è uscito un articolo sul New York Times che ha fatto discutere: “Do antidepressants work? This British professor says they don’t”. Il pezzo racconta il lavoro e le posizioni della psichiatra britannica Joanna Moncrieff, che da anni mette in discussione l’idea – diffusa e rassicurante – che la depressione sia causata da uno squilibrio chimico, in particolare da un deficit di serotonina.

L’articolo del Times arriva due anni dopo la pubblicazione, nel 2022, di una revisione sistematica a firma di Moncrieff e colleghi sulla rivista Molecular Psychiatry. Il titolo è eloquente: “The serotonin theory of depression: a systematic umbrella review of the evidence” – una “revisione a ombrello” che ha analizzato decine di studi su vari aspetti della serotonina per verificare se esistano prove solide che colleghino questo neurotrasmettitore alla depressione.

Cosa dice la scienza?

I risultati della review sono sorprendenti (o forse no, per chi lavora da anni con un approccio integrato e relazionale alla sofferenza psichica):

  • Non ci sono evidenze convincenti che le persone depresse abbiano livelli più bassi di serotonina nel cervello.
  • Gli studi sui recettori e sui trasportatori della serotonina sono deboli e spesso influenzati dal precedente uso di antidepressivi.
  • Le ricerche sulla deprivazione di triptofano (precursore della serotonina) non mostrano effetti coerenti.
  • Anche le analisi genetiche, condotte su centinaia di migliaia di individui, non supportano l’idea che la depressione sia legata a variazioni nei geni della serotonina.

In sintesi: la teoria che la depressione sia causata da una carenza di serotonina non regge più sul piano scientifico.

Una teoria comoda (per tutti)

Ma allora perché questa ipotesi ha dominato per decenni? Perché è semplice. Perché offre una spiegazione rapida e “tecnica” del dolore psichico. E perché ha giustificato – sul piano commerciale e clinico – l’uso diffuso degli SSRI, gli antidepressivi più prescritti al mondo. Dire a una persona in difficoltà che la sua sofferenza dipende da una “mancanza di serotonina” ha rassicurato milioni di pazienti… e semplificato il lavoro di medici e psicologi.

Tuttavia, questa semplificazione ha avuto un costo: ha oscurato la complessità della depressione, riducendola a un problema biochimico, trascurando le cause emotive, relazionali, traumatiche, esistenziali.

Gli antidepressivi funzionano?

Il punto sollevato da Moncrieff – e discusso nell’articolo del Times – non è che gli antidepressivi “non funzionano”. È che non funzionano come si è creduto: non “correggono” uno squilibrio chimico. Possono avere effetti reali, ma questi effetti sono ancora poco compresi, e spesso non superiori al placebo nei casi di depressione lieve o moderata.

Questo non significa che i farmaci vadano demonizzati. Ma che vanno restituiti al loro contesto: strumenti parziali, da usare con consapevolezza, non panacee.

Verso una nuova comprensione della depressione

L’idea di fondo che emerge da questa revisione è che la depressione non è (solo) un disturbo del cervello. È un’esperienza complessa, che coinvolge il corpo, la storia personale, le relazioni, il contesto sociale. È una risposta spesso comprensibile a esperienze di perdita, solitudine, disconnessione, trauma.

Spostare lo sguardo dal cervello alla persona significa ripensare anche la cura: dare spazio a percorsi terapeutici che includano il corpo, l’ascolto profondo, il contatto umano. Psicoterapia, relazione, presenza. Un lavoro paziente, a volte scomodo, ma profondamente trasformativo.

Forse non c’è una “pillola magica” per guarire dalla depressione. Ma c’è qualcosa di più potente: la possibilità di essere visti, ascoltati, accompagnati nel proprio dolore. La scienza non ci dice che non possiamo guarire. Ci dice solo che, per farlo, dobbiamo cambiare strada.

L’efficacia del massaggio e delle terapie basate sul contatto nei pazienti oncologici

Negli ultimi anni, il massaggio e le terapie basate sul contatto sono stati sempre più studiati per il loro ruolo nel trattamento complementare dei pazienti oncologici. Questi interventi non solo migliorano il benessere psicofisico, ma contribuiscono anche alla riduzione dei sintomi legati alla malattia e alle terapie oncologiche.

Benefici del massaggio nei pazienti oncologici

1. Riduzione del dolore e dello stress

Secondo uno studio pubblicato nel Journal of Pain and Symptom Management, il massaggio è stato associato a una riduzione significativa del dolore nei pazienti oncologici. Il trattamento ha dimostrato di abbassare i livelli di cortisolo, ormone dello stress, e di aumentare la produzione di endorfine, migliorando così la percezione del dolore e la qualità della vita.

2. Miglioramento dell’umore e riduzione dell’ansia

Uno studio condotto presso il Memorial Sloan-Kettering Cancer Center ha evidenziato che la terapia del massaggio riduce i sintomi di ansia e depressione nei pazienti sottoposti a trattamenti oncologici. I benefici emotivi del contatto terapeutico derivano dall’attivazione del sistema limbico, responsabile della regolazione delle emozioni.

3. Miglioramento del sonno e riduzione della fatica

La fatica cronica è uno dei sintomi più comuni nei pazienti oncologici. Studi clinici hanno dimostrato che il massaggio regolare aiuta a migliorare la qualità del sonno, favorendo il rilassamento muscolare e la regolazione dei ritmi circadiani.

Terapie basate sul contatto: Touch Therapy e Palliative Care

1. Touch Therapy

La Touch Therapy è una tecnica terapeutica che utilizza il contatto fisico delicato per favorire il rilassamento e il benessere generale nei pazienti oncologici. Questo approccio si basa sul principio che il tatto è un potente mezzo di comunicazione non verbale in grado di stimolare il sistema nervoso parasimpatico, promuovendo uno stato di calma e riducendo i livelli di stress.

Come funziona la Touch Therapy?

La Touch Therapy prevede il contatto leggero delle mani su specifiche aree del corpo, senza applicare pressioni profonde. I principali effetti terapeutici includono:

  • Riduzione del dolore: Attraverso il rilascio di endorfine e la riduzione della percezione del dolore, il massaggio leggero può alleviare le tensioni muscolari e migliorare il comfort generale.
  • Abbassamento dei livelli di cortisolo: Il contatto fisico rilassante contribuisce a ridurre l’ormone dello stress, migliorando la risposta dell’organismo ai trattamenti oncologici.
  • Miglioramento della qualità del sonno: Pazienti sottoposti a Touch Therapy riportano una maggiore facilità ad addormentarsi e una qualità del sonno migliorata.
  • Aumento del benessere emotivo: Il contatto umano costante trasmette sicurezza e riduce sentimenti di isolamento e ansia.

Touch Therapy nei pazienti oncologici

Diversi studi hanno dimostrato che la Touch Therapy può avere un impatto positivo significativo nei pazienti oncologici. Un’indagine condotta presso il Memorial Sloan-Kettering Cancer Center ha evidenziato che i pazienti sottoposti a Touch Therapy riportavano una riduzione del dolore del 50% e una sensibile diminuzione dell’ansia. Inoltre, questa terapia si è rivelata utile nel ridurre gli effetti collaterali della chemioterapia, come nausea e affaticamento.

Un altro studio pubblicato sull’Annals of Internal Medicine ha confrontato la Touch Therapy con il massaggio terapeutico tradizionale, dimostrando che entrambi hanno un effetto positivo sul miglioramento dell’umore e sulla riduzione del dolore nei pazienti con tumori avanzati.

Applicazione pratica della Touch Therapy

La Touch Therapy può essere integrata nel piano di trattamento dei pazienti oncologici attraverso:

  • Sessioni di terapia personalizzate, condotte da operatori specializzati.
  • Interventi di cura quotidiana, in cui caregiver e familiari vengono istruiti su tecniche di contatto rilassante per supportare il paziente.
  • Pratiche complementari, come il Reiki e la terapia cranio-sacrale, che possono amplificare i benefici del trattamento.

Questa tecnica, quando applicata con attenzione e sensibilità, rappresenta una risorsa preziosa per migliorare la qualità della vita dei pazienti oncologici, offrendo un supporto olistico durante il percorso di cura. La Touch Therapy è una tecnica che si basa sul contatto fisico leggero per riequilibrare il sistema energetico del corpo. Questa pratica si è rivelata particolarmente utile nei pazienti oncologici, aiutando a ridurre il dolore e migliorare la qualità della vita.

2. Terapie palliative integrate

L’integrazione del massaggio nelle cure palliative è sempre più diffusa. Secondo una ricerca pubblicata sull’Annals of Internal Medicine, il massaggio terapeutico ha dimostrato di essere più efficace del semplice tocco nell’alleviare il dolore e migliorare l’umore nei pazienti con tumori in fase avanzata.

Interruzione del ciclo del distress attraverso il massaggio

Il distress nei pazienti oncologici è una condizione complessa che coinvolge fattori fisici, emotivi e psicologici. Questo stato di tensione prolungato può peggiorare la percezione del dolore, aumentare l’infiammazione e compromettere la risposta immunitaria. Il massaggio e le terapie basate sul contatto possono interrompere il ciclo del distress attraverso diversi meccanismi:

  • Regolazione del sistema nervoso autonomo: Il massaggio aiuta a ridurre l’attivazione del sistema nervoso simpatico, responsabile della risposta “lotta o fuga”, e favorisce l’attivazione del sistema parasimpatico, associato al rilassamento e alla guarigione.
  • Riduzione della produzione di cortisolo: Il distress cronico porta a livelli elevati di cortisolo, l’ormone dello stress, che può interferire con la capacità dell’organismo di rispondere alla malattia. Il massaggio ha dimostrato di ridurre significativamente i livelli di cortisolo, migliorando il benessere generale del paziente.
  • Aumento della produzione di endorfine e serotonina: Questi neurotrasmettitori sono fondamentali per il benessere emotivo e fisico, contribuendo a ridurre la percezione del dolore e migliorare l’umore.
  • Miglioramento della qualità del sonno: Il distress oncologico è spesso associato a disturbi del sonno. Il massaggio favorisce il rilassamento muscolare e la regolazione dei ritmi circadiani, contribuendo a un riposo più profondo e ristoratore.
  • Rinforzo della connessione mente-corpo: Attraverso il contatto fisico, il massaggio aiuta i pazienti a riconnettersi con il proprio corpo in modo positivo, contrastando le sensazioni di alienazione o disconnessione spesso associate alla malattia oncologica.

Sicurezza e precauzioni nell’uso del massaggio in oncologia

Sebbene il massaggio terapeutico sia generalmente sicuro, è fondamentale che venga eseguito da professionisti con esperienza nel trattamento dei pazienti oncologici. Le tecniche devono essere adattate per evitare pressioni eccessive su aree sensibili, come linfonodi ingrossati o siti di metastasi.

Sebbene il massaggio terapeutico sia generalmente sicuro, è fondamentale che venga eseguito da professionisti con esperienza nel trattamento dei pazienti oncologici. Le tecniche devono essere adattate per evitare pressioni eccessive su aree sensibili, come linfonodi ingrossati o siti di metastasi.

Conclusione

L’evidenza scientifica dimostra che il massaggio e le terapie basate sul contatto possono avere un impatto significativo sulla qualità della vita dei pazienti oncologici. Questi interventi non solo alleviano il dolore e riducono l’ansia, ma offrono anche un supporto emotivo essenziale durante il percorso di cura.

Bibliografia

  • Cassileth, B. R., & Vickers, A. J. (2004). Massage Therapy for Symptom Control: Outcome Study at a Major Cancer Center. Journal of Pain and Symptom Management.
  • Kutner, J. S., et al. (2008). Massage Therapy versus Simple Touch to Improve Pain and Mood in Patients with Advanced Cancer: A Randomized Trial. Annals of Internal Medicine.
  • Rashvand, F., & Pashaki, N. J. (2015). Effect of Massage Therapy on Postoperative Nausea and Vomiting in Cancer Patients Receiving Chemotherapy: A Systematic Review.
  • Memorial Sloan-Kettering Cancer Center Study on Massage Therapy (2004). Effects of Massage on Anxiety and Depression in Oncology Patients.

Il tocco come strumento di regolazione affettiva nella psicoterapia corporea

Nel lavoro psicoterapeutico corporeo, il tatto rappresenta una delle forme più profonde di comunicazione non verbale. L’articolo di Bernhard Schlage (Touch and Affect Regulation Postural Integration, Trauma Skills,and Tools for Body-Oriented Psychotherapy 2021) propone un modello articolato in quattro fasi che integra il tocco terapeutico nella regolazione affettiva, con un focus particolare sul trattamento dei traumi. In questo documento divulgativo ma approfondito, esploriamo i concetti chiave, approfondiamo riferimenti teorici fondamentali e forniamo esempi pratici di intervento.

1. Fase di contatto iniziale: costruzione del legame Il primo incontro con il paziente avviene spesso già a livello sensoriale e affettivo, ad esempio tramite il tono della voce durante una telefonata. Il terapeuta riceve segnali sullo stato emotivo e corporeo del paziente e, secondo Stephen Porges (2001), il sistema di ingaggio sociale si attiva immediatamente per regolare la vicinanza e la sicurezza relazionale.

Esempio: una voce tremante può attivare nel terapeuta empatia o tensione. Riconoscere dove nel proprio corpo si sente questa risonanza è già parte del processo di co-regolazione.

In questa fase si abbandona il modello terapeutico “neutro” a favore di un contesto simmetrico e relazionale, in cui il terapeuta offre presenza, accoglienza e segnali corporei di apertura (gesti rilassati, contatto oculare, voce modulata).

2. Fase di grounding e stabilizzazione corporea Si lavora per aiutare il paziente a distinguere tra sensazione corporea ed emozione associata. Questo aumenta la capacità di restare nel presente, entro la “finestra di tolleranza” (Ogden et al., 2010), evitando sia l’iperattivazione (ansia, panico) che l’ipoattivazione (apatia, dissociazione).

Tecniche di grounding: portare attenzione al respiro in zone sicure del corpo, notare cambiamenti di temperatura o colore sotto la pelle, ampliare piccoli gesti spontanei.

Tocco iniziale: una mano poggiata sul dorso (zona percepita come neutra) con l’intento di contenere e accompagnare la respirazione, senza “fare” ma solo “essere”. Questo tocco non è manipolativo, ma relazionale.

3. Fase di ricezione del tocco e emersione emotiva In questa fase, il paziente inizia a sviluppare una mappa sensoriale del tocco positivo, evocando esperienze precoci (es. contatto con la madre, animali domestici, esperienze ludiche). Si lavora con le memorie somatiche implicite (van der Kolk, 1996) e si attivano i neuroni specchio (Rizzolatti et al., 1996) tramite la risonanza empatica.

Esempi pratici:

  • Invitare il paziente a esplorare da sé il tocco su mani e braccia, notando preferenze (es. pressione leggera o contenitiva).
  • Il terapeuta offre il tocco in zone sicure, come le spalle, osservando le reazioni corporee (tensione, scioglimento, variazioni respiratorie).
  • In caso di “tocco fuso” (sensazione di continuità tra mani del terapeuta e pelle del paziente), si può indagare la qualità della fusione: rassicurante o invasiva?

Si lavora anche sul ciclo dell’affetto (Schlage et al., 2012): stimolo → espansione → climax → rilassamento. Nei pazienti traumatizzati questo ciclo è spesso interrotto. L’obiettivo è ripristinare il flusso emotivo naturale attraverso tecniche di tocco e respiro.

4. Fase di integrazione e embodiment L’ultima fase riguarda l’“integrazione” dell’esperienza terapeutica nella vita quotidiana. Il tocco e le esperienze corporee vengono collegate a nuovi schemi relazionali e a una maggiore capacità di autoregolazione.

► Si rinforzano abilità come:

  • regolazione autonoma dello stato emotivo;
  • gestione della distanza e dell’intimità nelle relazioni;
  • capacità di godere (gioia, piacere, rilassamento).

Il paziente può iniziare a sperimentare nuove attività corporee (danza, sport, arte) come forma di consolidamento della nuova identità somatica.

Conclusione Il tocco, nella psicoterapia corporea, non è solo un gesto tecnico, ma un evento relazionale capace di accedere ai nuclei affettivi più profondi. La sua funzione regolativa emerge in un contesto sicuro e rispettoso, che valorizza il corpo come luogo di memoria, espressione e trasformazione. Come scrive Schlage, il terapeuta deve cessare di guardare il paziente con occhi “diagnostici” e imparare a vederne il potenziale umano.

Un buon lavoro con il tocco è un’arte: richiede sensibilità, formazione, etica e una profonda capacità di stare nel qui e ora con l’altro, corpo a corpo, cuore a cuore.

Analisi Funzionale: Psicoterapia Corporea e Regolazione Energetica

L’Analisi Funzionale, sviluppata da Will Davis e da Lilly Davis, è un modello di psicoterapia corporea che si focalizza sulle dinamiche energetiche del corpo e sulla loro relazione con il funzionamento psicologico ed emotivo dell’individuo. Questo approccio si distingue per il suo orientamento alla regolazione dell’energia interna e alla qualità del contatto terapeutico, piuttosto che sull’espressione catartica delle emozioni.

Pilastri Fondamentali

  1. Il Concetto di Energia e il Minimo Stimolo
    L’Analisi Funzionale parte dall’assunto che il sistema energetico umano opera secondo un principio di regolazione ottimale. Will Davis utilizza il concetto di “Minimo Stimolo”, che si riferisce alla capacità del terapeuta di lavorare con interventi sottili, evitando un’eccessiva attivazione emotiva e facilitando un processo di integrazione profonda. Questo principio si oppone all’idea che il cambiamento terapeutico debba necessariamente passare attraverso una forte attivazione emotiva o una scarica energetica intensa. Il “Minimo Stimolo” si basa sull’idea che il corpo e la mente possiedano una capacità innata di autoregolazione, che può essere facilitata attraverso interventi delicati, ma mirati. Questo approccio è particolarmente utile per persone con traumi o sensibilità psicofisiologiche, che potrebbero essere sopraffatte da tecniche più aggressive. Il terapeuta, quindi, utilizza una presenza consapevole e un contatto calibrato per favorire la riattivazione delle risorse interne del paziente, senza forzare il processo.
  2. Il Sistema Connettivo come Memoria Corporea
    Un aspetto distintivo dell’Analisi Funzionale è il ruolo del tessuto connettivo (fascia) come struttura che immagazzina e regola le esperienze emotive. Il sistema connettivo è visto come un “organo della continuità”, che collega e integra le diverse parti del corpo e dell’esperienza psico-emotiva. La fascia non è solo un supporto anatomico, ma una rete viva e interattiva che partecipa alla trasmissione delle informazioni tra corpo e mente. Studi scientifici dimostrano che il tessuto connettivo possiede una sensibilità alla pressione, al movimento e alla tensione, fungendo da intermediario nella regolazione dell’energia e delle emozioni. Nell’Analisi Funzionale, il lavoro sulla fascia aiuta a sbloccare tensioni profonde e a ristabilire la continuità dell’esperienza corporea. Tensioni croniche nella fascia possono essere interpretate come registrazioni di esperienze traumatiche o di schemi relazionali disfunzionali. Attraverso tecniche specifiche, il terapeuta facilita il rilascio graduale di queste tensioni, permettendo al paziente di accedere a nuove sensazioni di integrazione e benessere. Inoltre, la fascia è coinvolta nel mantenimento della postura e nell’espressione corporea delle emozioni. Il suo stato di tonicità o rigidità può riflettere pattern psico-emotivi consolidati nel tempo. Lavorare su di essa consente di modificare la qualità dell’esperienza interna e di promuovere un cambiamento più duraturo rispetto agli approcci basati esclusivamente sulla parola.
  3. Il Ruolo della Fascia nella Psicoterapia Corporea
    L’Analisi Funzionale riconosce l’importanza della fascia non solo in ambito biomeccanico, ma anche come struttura che organizza il flusso energetico e le dinamiche emotive. La plasticità della fascia consente di immagazzinare e rilasciare informazioni somatiche ed emotive. Attraverso il lavoro corporeo specifico, il terapeuta aiuta il paziente a sciogliere tensioni fasciali che possono essere collegate a traumi o blocchi emotivi profondi. Questo intervento mira a migliorare il senso di coesione interna, facilitando l’esperienza di un corpo più fluido e connesso. A differenza di approcci più strutturali, che vedono la fascia come un sistema di sostegno meccanico, l’Analisi Funzionale la considera una rete di comunicazione che riflette e regola l’equilibrio psicofisico dell’individuo.
  4. Instroke e Contatto Terapeutico
    L'”Instroke” è un concetto chiave che indica il movimento dell’attenzione e dell’energia verso l’interno, favorendo un processo di radicamento e regolazione interna. L’Instroke è l’opposto dell’outstroke, ovvero l’impulso energetico che si muove verso l’esterno. Mentre molte tecniche psicocorporee enfatizzano l’espressione e la liberazione emotiva, l’Analisi Funzionale sottolinea l’importanza di sviluppare la capacità di dirigere l’attenzione e l’energia verso l’interno per accedere a una maggiore autoregolazione e stabilità. Questo processo facilita l’integrazione dell’esperienza corporea, migliorando la consapevolezza di sé e il senso di continuità interna. Il contatto terapeutico gioca un ruolo cruciale in questo processo. Può essere verbale, attraverso un linguaggio che guida il paziente a focalizzarsi sulle sensazioni corporee, oppure fisico, con tocchi leggeri e mirati che facilitano l’accesso a stati profondi di rilassamento e integrazione.
  5. Approccio Non Catartico e Autoregolazione
    A differenza di altri modelli di psicoterapia corporea che privilegiano la scarica emotiva, l’Analisi Funzionale si concentra sull’autoregolazione, promuovendo processi di riorganizzazione interna attraverso interventi delicati e progressivi. L’autoregolazione è vista come la capacità del sistema corpo-mente di mantenere uno stato di equilibrio senza bisogno di stimoli esterni intensi o interventi invasivi. Invece di cercare un rilascio immediato delle emozioni, l’obiettivo è aiutare il paziente a sviluppare strumenti per gestire e integrare le proprie esperienze in modo sostenibile. Questo approccio è particolarmente indicato per persone con traumi complessi o ipersensibilità emotiva, per le quali un’eccessiva stimolazione potrebbe risultare disorganizzante. Attraverso tecniche di respirazione, focalizzazione corporea e contatto terapeutico, il paziente apprende a riconoscere e modulare il proprio stato interno, accedendo a un senso più profondo di stabilità e resilienza.

Caratteristiche Distintive

  • Focalizzazione sulla qualità del contatto terapeutico anziché sulla semplice espressione emotiva.
  • Utilizzo di interventi minimi per favorire processi di autoregolazione sostenibili.
  • Ruolo centrale del sistema connettivo come mediatore tra corpo ed emozioni.
  • Valorizzazione del movimento interno (Instroke) come strumento per la crescita personale.
  • Approccio non invasivo e orientato alla profondità piuttosto che alla drammatizzazione del vissuto.

L’Analisi Funzionale di Will Davis rappresenta un modello innovativo nel panorama della psicoterapia corporea, integrando conoscenze sulla fascia, sull’energia e sulle dinamiche psicologiche in un approccio che enfatizza la regolazione interna e il contatto terapeutico consapevole. Questo metodo offre un’alternativa sofisticata e rispettosa ai modelli più espressivi, rendendolo particolarmente utile per il lavoro con pazienti che necessitano di un processo terapeutico delicato e profondo.

edoardo ballanti psicologo senigallia

Contatto fisico in Psicologia: scopi e benefici

Contatto e creazione dell’immagine corporea

Il contatto fisico viene usato in psicologia somatica poiché è mediatore di diversi effetti benefici per l’organismo e per la persona. Migliora le capacità propriocettive e interocettive, portando a una definizione dello schema corporeo e alla creazione di confini sani. La consapevolezza del proprio corpo è migliorata attraverso la stimolazione dei meccanocettori fasciali, che attivano la via spino-talamo-corticale, portando a un maggior contatto con le emozioni e con i sentimenti viscerali. È importante comprendere questa doppia via di comunicazione tra cambiamenti tissutali e sensazioni intero e propriocettive, per poterla utilizzare in terapia. Spesso i pazienti riportano sensazioni riguardanti la percezione del loro corpo, come calore, leggerezza, pesantezza, un aumento nella sensazione di spazio interno, una sensazione di maggiore fluidità, ecc.

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scaleni

Il tocco come forma primaria di relazione

Il perché dell’uso del tocco nella psicologia somatica e nelle psicoterapie corporee

Prima della nascita della psicoanalisi e della psichiatria, il massaggio era compreso tra i metodi di trattamento e cura per chi soffriva di condizioni nervose, e indicato spesso come trattamento da parte dei medici. È in questo tipo di contesto che Freud sviluppa il metodo della psicoanalisi. Sebbene la psicoanalisi sia nota per non toccare i pazienti, ci sono delle eccezioni degne di nota, ed è significativo che, nonostante la credenza diffusa (la regola della neutralità e il divieto di contatto tra analista e analizzato) risulti che lo stesso Freud, e con lui anche Groddeck, ricorressero all’utilizzo del massaggio con alcuni pazienti.

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calatonia

Calatonia e Tecniche di Contatto Sottile

La Calatonia, come la tecnica Points & Positions dell’Analisi Funzionale, con cui condivide alcuni aspetti che tratteremo in seguito, appartiene a una serie di tecniche denominate di tocco leggero. Il termine deriva dal greco Khalaó e significa un tono allentato e rilassato, non solo a livello muscolare ma anche a diversi livelli dell’esperienza umana. Fu coniato da Pethö Sándor psicologo e medico Ungherese, sulla base della sua esperienza durante la seconda guerra mondiale. Come rifugiato dall’Ungheria, Sándor lavorava in un ospedale della croce rossa trattando casi post-operatori di amputazioni, sindromi da arto fantasma, crolli nervosi, depressioni e reazioni compulsive. Nel tentativo di utilizzare il training autogeno con questi pazienti, si rese conto che a causa della grave depressione e del trauma, la maggior parte dei pazienti non raggiungeva il livello necessario di concentrazione, o non voleva cooperare.

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Depressione come Iper-incarnazione

Durante l’ultimo decennio, il concetto di incarnazione è finito per diventare un paradigma importante in diversi approcci interdisciplinari, dalla filosofia, alla psicologia, psichiatria e neuroscienze. Questo nuovo paradigma è basato sulla convergenza di fenomenologia, scienza cognitiva e teoria dei sistemi dinamici. Il concetto di incarnazione si riferisce non solo all’incorporazione di processi cognitivi nei circuiti cerebrali ma anche all’origine di questi processi nell’esperienza sensomotoria che l’organismo vive in rapporto al suo ambiente immediato. Diversi neuroscienziati hanno sottolineato la stretta connessione tra strutture cerebrali, funzioni del corpo e aspetti della mente come coscienza, cognizione, emozioni e saggezza.

depressione come iperincarnazione

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